La Scuola Holden e la filiera della creatività a pagamento
20.000 euro per una firma di Baricco
Premessa per chi capita qui per caso (o per dovere di cronaca)
Ho frequentato la Scuola Holden dal 2018 al 2021.
Spoiler: non è stata l’esperienza illuminante che mi avevano promesso. È stata, piuttosto, un lungo esercizio di resistenza.
Racconto tutto questo perché posso farlo: me lo permette l’articolo 21 della Costituzione Italiana, che tutela la libertà di espressione, e me lo permette anche il diritto di critica, che – giusto per chiarire – consente di esprimere opinioni anche molto negative, a patto che siano personali, motivate e non offensive.
Quello che scrivo riguarda fatti che ho vissuto, osservato e metabolizzato a mie spese.
Non ho intenzione di calunniare nessuno, ma nemmeno di edulcorare.
Non nominerò persone, a meno che non sia indispensabile. E no, non sto facendo un processo alle intenzioni: sto raccontando una storia, la mia.
Perché ho aspettato così tanto a scriverne?
Ci ho messo anni a trovare il coraggio di raccontare questa esperienza. Non per mancanza di parole – quelle non mi mancano mai – ma per paura.
Paura di ritorsioni, chiusure, porte sbattute in faccia in un settore dove le porte sono già pochissime e spesso aperte solo a chi ha la chiave giusta.
È una paura fondata? Non lo so.
So però che la Scuola Holden – ora Feltrinelli Holden – ha ramificazioni ovunque: docenti, ex docenti, ospiti illustri, ex allievi diventati interni, interni diventati “figure di riferimento”, festival, bandi, premi, scrivanie editoriali, e persino qualche red carpet.
È un piccolo ecosistema autosufficiente.
Quindi sì, potrebbe anche succedere qualcosa. Oppure no. Ma oggi ho deciso che il mio silenzio non vale più di questa storia.
Male che vada, non farò mai la scrittrice per grandi industrie culturali o per luoghi prestigiosi: farò la barista, ed entro cinque anni aprirò il mio Maid Café.
D’altronde, la felicità è quasi sempre una mediazione tra quello che si può e quello che si vuole.
Che cos’è davvero la Scuola Holden?
Bella domanda. Rispondere è più difficile che spiegare il finale di Tenet a un sonnambulo.
La Scuola Holden è un’azienda privata con sede a Torino che propone corsi di storytelling, qualunque cosa questo significhi. Già, perché la parola “storytelling” viene ripetuta ovunque – sul sito, nelle brochure, in aula magna (pardon, general store) – ma nessuno sembra davvero sapere cosa sia, né cosa voglia dire “insegnarlo”.
Fondata negli anni ’90 in un appartamento torinese, oggi la scuola risiede nell’ex Arsenale militare. Si è trasformata in un organismo tentacolare: corsi online, corsi per aziende, “palestre”, laboratori weekend per over 30, bienni di ogni tipo con indirizzi che cambiano ogni uno o due anni. Il mio, ad esempio – “Serialità & Televisione” – non esiste più. Un altro esempio: il corso di giornalismo è stato inglobato dentro un vago “scrivere”.
Eppure la punta dell’iceberg resta “Original”, il biennio da 20.000 euro (10.000 all’anno), un percorso che non rilascia alcun titolo legalmente riconosciuto. Solo un attestato di frequenza. Il suo valore nel mondo culturale? Dipende. Per alcuni è uno status symbol, per altri un deterrente. Può aiutarti ad entrare in certi ambienti, ma può anche farti scartare a priori, perché sì, la Holden è anche un pregiudizio.
Dal 2020 circa, però, è accaduto un piccolo miracolo burocratico: la Scuola Holden ha ottenuto l’accreditamento del MIUR, riuscendo a lanciare una triennale equipollente a Lettere Moderne o Scienze Umanistiche. Come ci sia riuscita, nessuno lo ha mai capito bene. Parliamo pur sempre di un’azienda privata, senza riconoscimenti pregressi di “alta formazione artistica” o affiliazioni accademiche note.Eppure, eccola lì: una laurea vera, con valore legale, che però costa 10.000 euro l’anno. O meglio: 11.500 circa, a partire dal 2021–2022. Una cifra che rende le università pubbliche italiane un affare da discount, e ti fa capire subito che qui non si paga per studiare, si paga per “entrare”.
Cosa si fa davvero durante il biennio?
Domanda legittima. Risposta: dipende da chi trovi, dall’anno che capita e da cosa ti raccontano all’inizio.
Non esiste un piano didattico pubblico, non ti viene fornito un monte ore, non c’è un programma ufficiale o trasparente. È tutto molto… fluido. La scuola non è tenuta a rilasciare nulla, perché non è un ente di formazione riconosciuto.
Non sei tecnicamente “uno studente”. Sei un cliente.
Ogni biennio ha indirizzi diversi che cambiano con una frequenza tale da rendere impossibile ogni confronto serio. Quindi anche raccontare cosa ho fatto io ha senso fino a un certo punto, ma alcune costanti ci sono.
La prima è la figura del mentore.
In teoria, è la persona che dovrebbe accompagnarti nel tuo percorso creativo e didattico. Nella pratica, è una figura mitologica la cui utilità varia a seconda di chi ti capita. Il mio era Federico Favot. Alcuni mentori ti seguono, altri ti ignorano, altri ancora ti fanno capire in modi più o meno espliciti che non sei “il tipo giusto” per la scuola. Ti viene detto che dovresti aspirare a diventare come loro, ma non è chiaro come questo dovrebbe avvenire.
Nel dubbio, arrangiati.
Poi ci sono i coordinatori, teoricamente uno o due. Io ne avevo due: Aaron Ariotti e Filippo Losito. Altri ne avevano uno solo, altri ancora due diversi. Anche questo, come molto alla Holden, non è chiaro da cosa dipenda, né viene comunicato apertamente.
Hanno un tot di lezioni (variabili) nel primo anno e ti insegnano – o almeno dovrebbero – le basi del tuo indirizzo. Nel mio caso: scrittura per serie tv da una parte, autorialità televisiva e format dall’altra.
Anche qui, quanto impari dipende da chi sei e da quanto vieni preso sul serio. Se chiedi un feedback strutturato, spesso ricevi commenti vaghi o generici.
Zero voti, zero criteri di valutazione: il massimo della libertà, o il massimo della discrezionalità, a seconda del tuo umore.
Nota importante:
Io parlo del biennio che ho frequentato tra il 2018 e il 2021, prima dell’acquisizione della scuola da parte di Fondazione Feltrinelli.
È possibile – anzi probabile – che oggi la struttura, i tutor, le modalità o i docenti siano cambiati.
Non posso parlarne. Posso parlare solo di quello che ho vissuto.
Lezioni, progetti, premi: il labirinto creativo
Durante l’anno si alternano una serie di lezioni con professionisti del settore culturale, che variano ogni anno.
Funziona così:
La prima lezione è di conoscenza (lui o lei racconta il proprio percorso, magari mostra due slide, si parla di sé); la seconda è quella “didattica”, in cui ti spiega più o meno cosa fa di mestiere e ti assegna un progetto, singolo o di gruppo.
Tu lavori a quel progetto da sola, o con chi ti capita, e nella terza e ultima lezione ricevi un feedback – più o meno utile, più o meno frettoloso.
Tutto viene valutato senza voti, senza rubriche, senza criteri espliciti. A volte è un “bello”, a volte un “manca qualcosa”.
Sì, è una scuola. Ma senza le parti che rendono una scuola riconoscibile.
A metà del secondo anno inizia il lungo conto alla rovescia per l’Opening Doors, il grande evento finale in cui presenti un progetto davanti a produttori, editori o aziende.
Può essere una serie, un format, un libro, un documentario, una campagna di comunicazione – dipende dal tuo indirizzo. Ma attenzione: non tutti vengono ammessi a presentare il proprio lavoro.
Ci sono slot limitati. E la scuola si riserva il diritto di decidere, anche all’ultimo, chi va e chi no.
Questo è previsto nel contratto che firmi all’inizio: non hai alcuna garanzia.
Durante Opening Doors hai 5 minuti per fare un pitch, poi ti siedi a un tavolo e speri che qualcuno venga a parlarti. Se succede, scambi un biglietto da visita.
Poi magari ti scrivono. O magari no. È il ballo delle debuttanti con il retrogusto di uno speed date professionale.
Nel corso dei due anni puoi partecipare anche a concorsi interni chiamati “gettoni”: sono progetti proposti da aziende esterne o bandi sponsorizzati dalla scuola.
Se vieni selezionata, puoi sviluppare l’idea e presentarla. In alcuni casi – rarissimi – si trasformano in vere opportunità di lavoro o di collaborazione, ma nella maggior parte dei casi restano esercizi ben confezionati che finiscono nel cassetto.
Infine ci sono i “crafting”, laboratori creativi collaterali (tipo falegnameria, origami, sartoria) e le cartografie, mini corsi trasversali su software, discipline o formati (es. podcast, photoshop, pitch deck…). Alcune sono utili, altre no, ma tutte servono a una cosa: riempire il tempo e dare l’idea di un’offerta didattica ricca, trasversale, multitasking.
Test d’ingresso: selettivi… ma non troppo
Nota importante: userò il passato per raccontare questa parte, perché è riferita all’anno in cui io ho sostenuto il test d’ammissione. Le modalità potrebbero essere cambiate nel frattempo – non posso saperlo.
Quello che segue è ciò che ho vissuto io.
Ogni anno, la Scuola Holden organizzava diverse sessioni di test d’ingresso in varie città, distribuite tra aprile e settembre. Io li avevo sostenuti in sede, a Torino.
Per partecipare, bastava compilare un modulo online con i propri dati, allegare una lettera motivazionale e pagare una quota (all’epoca 10€). Poi si sceglieva una data e ci si presentava lì: ti davano una busta con il tema della prova, una matita, un quaderno, qualche cartoncino illustrato e un dépliant ben stampato. Il packaging, va detto, era curato.
I test scritti erano sette, uno per ogni “college” (non corsi: college, perché tutto doveva avere un nome altisonante).
Lo stesso tema veniva declinato in modi diversi a seconda del college.
Faccio un esempio: se il tema era Britney Spears, nel college di “cinema” dovevi scrivere una sceneggiatura; in “digital” inventavi i suoi post Instagram; in “scrivere” una sinossi biografica; in “reporting” un articolo scandalistico; in “serialità” ideavi una serie TV sul suo amore con Justin Timberlake.
Tutte le prove avevano limiti di battute e di tempo, e si svolgevano nella mattinata.
Il pomeriggio era dedicato a un colloquio individuale. Un misto tra seduta psicologica e chiacchierata da primo appuntamento: ti chiedevano del tuo passato, del tuo futuro, dei tuoi sogni, del colore preferito. Tutto molto “umano”, ma anche molto vago.
Dopo una decina di giorni, arrivava via mail il responso.
Non si veniva mai davvero “bocciati”.
Certo, magari non si entrava nel college desiderato, ma una proposta arrivava sempre. Se prendevi voti bassi in “cinema” ma un buon punteggio in “brand new”, ti consigliavano quello.
La sensazione era più simile a una ridistribuzione commerciale che a una selezione.
Se rinunciavi al tuo posto, non potevi ripetere il test: o accettavi, o lasciavi.
Il sistema creava una urgenza implicita: ti sembrava di avere una sola occasione, l’ultima carrozza del treno, e tu – che magari avevi appena finito l’università – volevi salirci a tutti i costi.
Curiosità bonus: siete ancora fermi sul costo della retta?
Bene. Fino a qualche tempo fa, sul sito ufficiale – nella sezione FAQ – alla domanda “Perché costa così tanto?”, la risposta era più o meno questa:
“Il nostro prezzo è competitivo a livello mondiale. Un corso simile, alla Columbia ad esempio, costa almeno 100.000 dollari.”
Ora.
Sì, ok. Ma la Columbia è la Columbia. E sei a New York, non in un ex arsenale militare a Torino con la Ubuntu Cola alle macchinette.
E poi, con tutto il rispetto, loro ti danno una laurea vera, riconosciuta ovunque. Qui invece stai pagando 20.000 euro per un attestato di frequenza e una spilla (forse).
Il contratto: istruzioni per diventare cliente
Per iscriversi al biennio 2018–2020, bisognava compilare un modulo ufficiale di iscrizione dal tono ben lontano da quello accogliente delle email motivazionali.
Era un contratto vero e proprio, redatto in legalese scolastico-corporativo, che ti trasformava ufficialmente da allievo a cliente. Anzi: allievo-cliente-con-potenziale-debito.
La retta era di 10.000 euro all’anno. Se decidevi di pagare tutto subito in un’unica soluzione (così, per sport), ti veniva applicato uno sconto del 5%: 9.500 euro all’anno. Ma per fermare il posto dovevi versare una caparra di 2.000 euroentro 7 giorni dalla comunicazione di ammissione. Nessuna deroga. Nessuna proroga.
Il tutto da inviare sia via mail che in formato cartaceo. Per sicurezza, e forse anche per scoraggiare chi ci ripensava.
Alternativa: il Prestito con Lode, in partnership con Intesa San Paolo.
Veniva concesso ai primi 5 idonei per ogni sessione di test (previa presentazione dell’ISEE sotto i 35.000 euro), copriva solo 6.000 euro su 10.000 per ciascun anno e il resto – sorpresa! – era comunque a carico tuo. In pratica, ti prestavano il 60%, e tu dovevi trovarti il 40% rimanente da sola. E comunque, se dopo l’iscrizione cambiavi idea, il prestito lo dovevi restituire lo stesso, per intero, anche se non mettevi più piede a scuola.
Perché – come specificato – “il finanziamento è un contratto del tutto autonomo rispetto al rapporto con la Scuola Holden”. Che è un modo elegante per dire: “Se ti bruci, sono affari tuoi.”
Poi c’erano le borse di studio: venti in tutto, da 2.000 euro per ciascun anno, assegnate in base ai risultati dei test. Il punteggio doveva essere alto, ma non era mai chiarito in base a quale criterio preciso venissero attribuite. Mistero.
Ma la parte più interessante arrivava alla voce “Materiali”.
Firmando il contratto, cedevi automaticamente alla scuola il diritto di utilizzare qualsiasi cosa tu producessi durante il corso: articoli, trame, soggetti, opere, disegni, dialoghi, idee.
La Holden poteva usarli per scopi didattici, promozionali e istituzionali, senza pagarti nulla.
Citazione testuale:
“senza che sia dovuto da parte di Holden S.r.l. alcun compenso o corrispettivo all’Allievo medesimo, ad alcun titolo, salvo espressa contraria pattuizione scritta.”
Potevano anche modificare o adattare le tue opere, purché non danneggiassero “l’onore o la reputazione” dell’autore. Per intenderci: il rispetto del diritto d’autore era limitato ai diritti morali, ma non economici.
Nel modulo approvavi anche specificamente alcune clausole “ai sensi degli articoli 1341 e 1342 del Codice Civile” – ovvero le clausole vessatorie, quelle che in un contratto normale andrebbero lette con molta attenzione.
Eccole:
“Rinunce” – la scuola poteva trattenere tutti i soldi versati anche in caso di recesso, salvo rare eccezioni.
“Materiali” – cedevi i tuoi diritti d’uso.
“Legge applicabile” – tutto era regolato dalla legge italiana.
“Controversie” – in caso di cause legali, era competente solo il Foro di Torino.
A fine modulo, bisognava firmare tutto “leggibile e autografo”, siglare ogni pagina a mano, allegare copia del documento e del codice fiscale con autocertificazione scritta (“dichiaro che le presenti copie sono conformi agli originali”) e spedire via mail e posta fisica. Una vera liturgia contrattuale.
In quel momento, capivi chiaramente: non stavi entrando in una scuola, stavi aderendo a un’azienda.
Una che ti vendeva formazione creativa con le stesse dinamiche di un contratto di telefonia. E che ti ricordava – nero su bianco – che le storie sono tue solo finché non le scrivi lì dentro.
Una mail vale mille brochure
Per dare un’idea concreta del tono e del funzionamento del processo di selezione, ho deciso di mostrare direttamente la mail di ammissione che ho ricevuto dalla Scuola Holden nel 2018, pochi giorni dopo aver sostenuto il test.
Ho oscurato i dati personali della mittente per rispetto della privacy, ma per il resto la comunicazione è riportata così com’è.
Come si può notare, i voti vengono comunicati in lettere (da A a D), uno per ogni “college”.
Nel mio caso, l’unico A l’ho ricevuto in Serialità & TV, ed è quello in cui poi sono entrata. Ma nella stessa mail si precisa che, anche se ti riconoscono un altro “profilo di narratore”, puoi tranquillamente scegliere un college diverso, basta aver preso almeno una C.
Insomma: l’idea di “selezione” è piuttosto elastica.
Interessante anche il tono dell’invito alla decisione:
“Resto in attesa di tue notizie entro una settimana da oggi per sapere cosa hai deciso.”
C’è urgenza. Non c’è possibilità di prendersi troppo tempo. E subito dopo si apre il discorso sul prestito d’onore, con annessa scadenza a 14 giorni dalla prova.
È tutto pensato per non lasciarti spazio per riflettere troppo: se vuoi quel posto, lo blocchi e paghi. Oppure lo perdi.
Ambiente sociale: sopravvivere ai personaggi
Se dovessi descrivere l’ambiente sociale della Scuola Holden con una parola sola, direi: denso.
Denso di sogni, denso di ambizioni, denso di ansia. Denso, in certi momenti, anche di disagio.
Ci tengo a precisarlo: questa è la mia esperienza personale, e non voglio generalizzare. Ma ho parlato con decine di ex studenti – e molti si sono ritrovati in quello che sto per dire.
Gli studenti erano divisi in due grandi categorie:
Chi arrivava fresco di liceo o dopo un anno di università abbandonata.
Chi invece aveva represso per anni il desiderio di scrivere, e vedeva la Holden come l’ultima occasione per provarci davvero.
Entrambi avevano in comune una cosa: la disperazione mascherata da entusiasmo.
Chi era più giovane cercava conferme, chi era più grande cercava riscatto.
La scuola diventava il posto dove farsi notare, essere scelti, brillare. O almeno provarci.
Con tutto quello che ne consegue: insicurezze a palla, relazioni intense e volatili, crisi creative ogni due settimane, confronti tra “a me hanno detto che sono bravissim*” e “a me nessuno mi fila”.
Non era raro vedere persone piangere nei corridoi, sparire per settimane, riapparire cambiati, e poi sparire di nuovo.
Non era raro nemmeno l’opposto: chi si faceva largo con arroganza, chi costruiva alleanze strategiche, chi puntava tutto sulla socialità da open bar del giovedì sera.
In fondo, era una scuola senza voti, quindi l’unico modo per capire se stavi “andando bene” era guardare quanto eri cercat, invitato, inserito, ammirato.*
Una gara silenziosa, spesso feroce, sotto sorrisi larghi e badge al collo.
C’erano relazioni amorose, alleanze creative, gruppi WhatsApp da 400 notifiche al giorno e momenti di isolamento totale.
A volte sembrava di stare in una serie HBO scritta da studenti del primo anno di psicologia.
Certo, c’erano anche rapporti sinceri. C’erano momenti belli, risate vere, collaborazioni che magari sono sopravvissute. Ma era tutto sempre molto mescolato.
Il confine tra esperienza formativa e esperimento sociale non era poi così netto.
Clima di competizione: se non emergi, evapori
La competizione alla Holden non era esplicita, ma onnipresente.
Nessuno te lo diceva apertamente, ma lo sentivi addosso. Come l’umidità a luglio.
La scuola ti prometteva un ambiente “protetto”, un “luogo sicuro dove sbagliare”.
Sì, certo. Ma intanto tutti volevano essere i migliori. O almeno: essere notati.
Non essendoci voti, classifiche o esami, l’unico metro di giudizio diventavano gli altri.
I compagni, i mentori, i tutor, gli ospiti. Ti valutavano sulla base di impressioni, chiacchiere, carisma. E tu facevi lo stesso.
Ogni assegnazione era un’occasione per brillare. Ogni progetto una micro-selezione darwiniana. Ogni silenzio dopo la tua presentazione un motivo per sprofondare.
La selezione più feroce, però, avveniva in vista dell’Opening Doors.
Pochi slot, molti progetti. Alcuni venivano tagliati all’ultimo, senza spiegazioni chiare.
Anche tra i più talentuosi, aleggiava sempre il dubbio: “Perché io no?”
E la risposta era sempre fumosa: “Perché non era pronto”, “Perché era meno convincente”, “Perché c’era qualcosa che non funzionava”.
Tradotto: non sei piaciut, ma non ti diciamo perché.*
Così imparavi a trattenerti, a piacere, a stare nel tono giusto.
A scrivere quello che potrebbe funzionare. A non sembrare “troppo” – troppo strano, troppo fragile, troppo personale.
C’era chi cambiava stile. C’era chi imitava i mentori. C’era chi smetteva proprio di scrivere per mesi.
La scuola non diceva mai “devi essere il migliore”. Ma ti metteva in una scatola trasparente dove tutti guardavano cosa stavi facendo.
E anche se nessuno parlava, sentivi il rumore dei confronti.
Opening Doors: quando il problema non è il progetto, ma chi lo propone
L’Opening Doors viene raccontato come un momento di celebrazione, una vetrina, la grande occasione.
Ma per molti, in realtà, è il momento in cui si decide – in modo spesso opaco – chi merita visibilità e chi no. E soprattutto, chi è gestibile e chi no.
Nel mio caso, il progetto c’era. Lavoravo a un podcast narrativo, lo stavo sviluppando nonostante un contesto psicologico e sanitario complesso: pandemia, sintomi acuti, un ricovero ospedaliero.
Non cercavo sconti, cercavo strumenti.
Non chiedevo scorciatoie, chiedevo chiarezza.
Non mi aspettavo indulgenza, mi aspettavo formazione.
Le risposte che ho ricevuto dal corpo docente non sono state né inclusive, né professionali.
Alla richiesta di supporto, venivo ignorata o respinta con tono passivo-aggressivo.
Alla richiesta di confronto, venivo trattata come un problema.
Al tentativo di esprimere il mio disagio, veniva risposto che “nessuno è pagato per fare da balia.”
E qui sta il punto. Alla Holden non vieni trattatə per quello che proponi, ma per quanto sei in grado di reggere la pressione.
Se sei lucido, veloce, autonomo, affabile: bene.
Se ti ammali, chiedi troppo, scrivi mail troppo lunghe, hai momenti di confusione: diventi “difficile”.
E se sei difficile, non ti aiutano. Ti isolano. Ti considerano ingestibile.
Il problema non è un singolo episodio.
È la cultura didattica implicita, la pedagogia del favore, la logica relazionale del “se stai simpatico ti aiutiamo, se sei un peso ti ignoriamo”.
Una scuola privata che pretende status da accademia, ma agisce come un’azienda che seleziona clienti buoni e silenziosi.
Se hai bisogni, se chiedi chiarimenti, se sollevi problemi metodologici, diventi fastidiosə. E il fastidio non si invita agli Opening Doors.
Questa non è educazione. È gestione dell’utenza.
E quando a pagare il prezzo sono studenti fragili, motivati, disposti a lavorare ma non a farsi annientare,
allora il problema non è uno studente in crisi.
È un corpo docente che non è in grado di formare, ma solo di premiare la conformità.
Risposte che non rispondono
Alla fine di quell’anno, dopo settimane di tensione, incomprensioni, mail ignorate, affermazioni giudicanti e un generale senso di esclusione, ho deciso di scrivere alla dirigenza.
Una lunga email, documentata, con screenshot, cronologia dei fatti e riflessioni sul comportamento di un docente nei miei confronti.
Non so se definirlo mobbing.
Non so se chiamarlo bullismo.
Non ho nemmeno la certezza lessicale per incasellarlo, ma so che quello che ho vissuto mi ha fatto stare male, mi ha fatto sentire svalutata, silenziata, presa di mira.
La risposta della scuola – firmata da una delle direttrici, Federica Manzon – è stata questa:
“La Scuola, in questi due anni, ti ha messo a disposizione molti contenuti e la costante disponibilità dei docenti a seguirti nei vari percorsi, come le molte mail di Aaron che hai incollato dimostrano.
Se la tua situazione ti ha reso difficile approfittare delle varie occasioni […] hai avuto e hai da parte nostra la massima comprensione.”
In sintesi: la responsabilità è tua, noi abbiamo fatto anche troppo.
Poco importa che la maggior parte delle mail fosse fatta di risposte tranchant, battute a sfondo personale, negazioni di confronto, giudizi espliciti sulla mia condizione psichica.
Per loro, quello era “supporto”.
Ho replicato. Una sola, secca domanda:
“Quindi voi, in quanto Scuola Holden, reputate che l’atteggiamento scorretto di un vostro dipendente ai danni di una sua alunna sia giustificato?”
La risposta?
Nessuna.
O meglio: un nuovo messaggio della direttrice che chiudeva tutto con un elegante:
“Pensavo di averti già risposto con la mia precedente mail, ma rimango disponibile se vuoi per parlarne in un colloquio via Meet.”
Come se il problema fosse solo una mia incomprensione. Come se bastasse una videochiamata per spiegare a una studentessa che non c’è nessun errore, nessuna violenza sistemica, solo un fraintendimento tuo.
A quel punto ho capito che non avrei avuto né scuse né riconoscimento.
Solo una forma educata di negazione, travestita da disponibilità.
E che il rispetto, l’accoglienza, l’inclusione – quei valori che la Scuola Holden dice di avere così tanto a cuore – valgono solo finché non metti in discussione la struttura.
Dopo diventano slogan. E tu, un problema di comunicazione.
Il gran finale: una pergamena da 20.000 euro
Alla fine di tutto – delle lezioni, dei tentativi, delle mail, dei silenzi, dei rifiuti, dei fraintendimenti, delle richieste ignorate – non ho partecipato all’Opening Doors.
Non perché non avessi un progetto, né perché non avessi voglia o forza.
Semplicemente, la scuola non ha voluto trovare una soluzione.
Le difficoltà legate alla pandemia, al mio stato di salute, alle richieste logistiche erano risolvibili, ma non sono state prese in carico. Nessuno ha voluto veramente includermi. Non ero più funzionale. E quindi: fuori.
Cosa ho ottenuto dopo due anni, 20.000 euro di retta e innumerevoli costi collaterali (affitto, spese, psicoterapia, farmaci, crisi)?
Una pergamena.
Firmata da Alessandro Baricco.
Sì, davvero. Una pergamena.
Con su scritto che avevo frequentato il corso in Storytelling & Performing Arts.
Che poi, “frequentato” è una parola generosa, visto che la scuola non riconosce monte ore, non prevede attestati con valore legale, non certifica nulla.
Il valore formale di quel documento è pari a zero.
Il valore simbolico, invece?
Be’, quello è tutto: un autografo da ventimila euro.
Un pezzo di carta che dovrebbe ricordarmi chi sono diventata. Ma che, per me, è solo il promemoria di quello che ho perso.
Ma dopo la Holden si lavora?
Domanda legittima. Dopo due o tre anni in una scuola che promette “mestieri del racconto” e “porte che si aprono”, viene da chiedersi: si lavora?
La risposta è: sì e no.
Ho conosciuto persone che hanno trovato lavoro, certo.
Ma erano lavori che – detta fuori dai denti – avrebbero potuto ottenere anche laureandosi in un’università pubblica, magari in Scienze della Comunicazione o Lettere, e spendendo decisamente meno. Stage, social media management, redazioni, copywriting base.
Insomma: tutte attività raggiungibili anche senza un investimento da 20.000 euro.
Molti altri fanno i freelance, vivono di saltuarietà, si spostano dove capita, si arrangiano.
E poi c’è chi ha semplicemente cambiato direzione: lavora in ambiti totalmente scollegati da ciò che ha studiato alla Holden.
Insegnamento, segreteria, ristorazione, assistenza clienti.
Tutti mestieri dignitosissimi – ma che non richiedono alcuna preparazione in storytelling, serialità o narrazione esperienziale.
Del resto, le statistiche italiane sull’occupazione giovanile non fanno sconti, nemmeno se hai studiato “Storytelling” in un loft torinese.
Eppure, c’è un altro fenomeno curioso:
alcuni ex allievi, nel giro di poco tempo, si ritrovano a ricoprire ruoli di potere all’interno della stessa scuola o in aziende partner.
Coordinatori di progetti, responsabili editoriali, ospiti di eventi, perfino tutor.
Come ci arrivino? Con che criteri vengano selezionati? Non si sa.
E detta con tutta sincerità, visto il livello di formazione che ho ricevuto io, dubito fortemente che loro abbiano imparato molto di più.
Forse hanno solo imparato meglio a stare al gioco.
Perché la Holden, più che una scuola, è un sistema chiuso: se ci entri bene, ti protegge. Se sei fuori asse, ti lascia lì.
Non è una rete, è un club.
E quindi, cosa penso della Holden?
Penso che mi fa paura.
Paura vera, profonda.
Paura del modo in cui riesce a imporsi come spazio di prestigio, creatività e libertà, mentre – sotto – si regge su dinamiche di esclusione, precariato e una cultura del talento che premia solo chi rientra nei suoi codici.
Non so nemmeno se pubblicherò mai questo articolo.
Perché la Holden è potente, e lo è in modi che non sempre si vedono.
Ho paura delle ripercussioni, degli sguardi che cambiano, delle porte che si chiudono.
Ho visto passare tra quelle aule persone famose, nomi importanti, figure pubbliche che stimo profondamente.
Zerocalcare, Roberto Saviano, Daria Bignardi, Marco Damilano, Chiara Valerio.
Persone che fanno dell’etica, della scrittura e del racconto una bandiera.
E allora mi chiedo:
com’è possibile che non vedano?
Com’è possibile che non si accorgano di cosa diventa una scuola quando vende sogni a caro prezzo, alimenta illusioni, e forma una generazione di giovani che, dopo averle dato tutto, si ritrovano più fragili, più soli e meno tutelati di prima?
Forse lo sanno.
Forse non vogliono saperlo.
Forse anche loro, in fondo, si sono arresi all’idea che la narrazione vincente conta più della realtà.
Negli anni ho provato più volte a parlarne, con esperti, con giornalisti, con persone del settore.
E ogni volta la risposta è stata la stessa: è così.
Funziona così.
È il gioco.
Io non so se vincerò qualcosa con questo racconto.
So solo che – per una volta – ho voluto raccontarlo io.
Interessante. In effetti molti insegnano in o frequentano questa scuola ma, a parte il bollino d'ordinanza sul CV, nessuno ne parla, ora che ci penso.
Cosa non mi stupisce: come in molte altre scuole di alta formazione (compresi master universitari) l' obiettivo non è tanto acquisire competenze ma public relation. In genere si fa per entrare in aziende che pagano bene, qui fa un po' ridere perché l' ambizione è entrare nel settore della cultura, dove notoriamente si viene pagati a pacche sulle spalle. È implicito che se entri per le pr, non devi rompere i coglioni e devi farti notare.
Cosa mi stupisce: mi sembra di capire, ma spero di capire male, che in questo circolo di public relation, l' insegnamento sia un po' la panna nel caffè. Intuisco vaghezza e pressappochismo. Nonostante l'equiparazione all' uni (per la cronaca: anche l' università pubblica ha master da 20.000 euro).
Hai scritto un articolo estremamente coraggioso. Ho frequentato il Conservatorio (ormai molto tempo fa), anche se non si tratta dello stesso ambito le tue parole mi risuonano profondamente. Ti auguro buona fortuna e ti abbraccio anche se non ci conosciamo 💖