Dopo la denuncia: indovina chi mi ha detto ‘brava’?
La destra cerca di arruolarmi, la sinistra fa finta di non vedermi.
Mi ha contattato la “Scuola Holden?”
No.
Ok ora che avete la risposta che mi chiedete da praticamente subito dopo la pubblicazione, possiamo alzarci le maniche e parlare di cos’è successo in quest’ultimo mese.
La prima settimana è stata stranamente tranquilla. Intorno a me, tutto sembrava fermo: nessuna testata, nessun comunicato, nessuna presa di posizione pubblica. Eppure il mio post correva. In meno di sette giorni aveva raggiunto quasi 400.000 visualizzazioni, e continuavano ad arrivare messaggi. Tantissimi. Di solidarietà, certo, ma anche di testimonianze dirette. Alcune simili alla mia. Altre, molto più gravi.
Quelle mi rimbombano tutt’oggi dentro, storie tremende, dove io mi auguro che tramite ciò che sto facendo (e che stiamo facendo) si possa scrivere un lieto fine. Pensavo quando vedevo in pochissime ore i numeri salire in modo imbarazzante: bene così. È già tanto. Meglio il passaparola organico di un titolo infilato a forza in un pezzo distratto
Poi la Scuola Holden ha pubblicato il famigerato video dei “20k spesi bene”.
Un autogol comunicativo in piena regola, così palese da sembrare una provocazione studiata. E infatti, da quel momento, la stampa non ha potuto più far finta di niente. Mi è stato riferito — e lo dico con cautela, perché non ho prove documentali — che alcuni articoli a mio favore erano stati bloccati nei giorni precedenti.
Ma dopo quel video, improvvisamente, qualcosa è cambiato.
Nel giro di 24 ore, la notizia è uscita ovunque: Repubblica, Corriere, La Stampa, Il Fatto, Today, Mowmag, Rivista Studio etc…
Un’ondata di articoli, in molti casi pubblicati solo per dovere di cronaca.
Il tono? Quasi sempre neutro, come se raccontare la mia denuncia fosse un obbligo spiacevole. Come se non si potesse davvero dire “ha ragione”, ma nemmeno più ignorare tutto.
I giornali di destra, i giornalisti di destra, le testate che di solito detestano ogni cosa che abbia anche solo il profumo di cultura indipendente, creatività, femminismo o critica al sistema.
Loro, sì. Si sono fatti avanti.
Con un buonismo così untuoso da risultare più violento della peggior invettiva. Come se non bastasse, anche Libero e Il Giornale si sono fiondati sulla vicenda.
E no, non è solo un problema di toni paternalistici, ironici, manipolatori. È proprio questione di provenienza. Di chi sono queste testate. Di cosa rappresentano.
Libero ha scritto un articolo con un tono da sberleffo, come a dire: vedi? Persino i narratori scivolano sulla narrazione. Come se questa storia fosse una battuta ben riuscita, un inciampo buffo, qualcosa su cui ridere alle spalle.
Ma non c’è niente da ridere.
Non c’è un cazzo da ridere.
E soprattutto non c’è niente di più violento di chi finge empatia per sputare sentenze.
Il Giornale, da parte sua, è andato oltre.
Ha definito la Holden “una scuola di cartapesta” – e fin qui, potremmo persino trovarci d’accordo – ma poi ha imboccato la solita china.
Quella dove la cultura è colpa della sinistra, dove chi critica viene arruolato d’ufficio come mascotte della destra, dove la parola “intellettuale” suona come un insulto.
Ma il punto è questo: non sono io che sto dalla parte dei fascisti travestiti da moderati. Sono loro che cercano di usare la mia rabbia per rafforzare la loro agenda. E la loro agenda è chiara.
Non gli importa un cazzo dell’accessibilità alla cultura, del diritto allo studio, delle promesse tradite.
Non gli interessa se una scuola è elitaria, se specula sui sogni, se distribuisce illusioni a pagamento. Gli interessa solo demolire qualsiasi cosa somigli a pensiero critico, a cultura libera, a sinistra culturale — anche quando quella sinistra è in evidente crisi di credibilità. I giornali di destra, i giornalisti di destra, le testate che di solito detestano ogni cosa che abbia anche solo il profumo di cultura indipendente, creatività, femminismo o critica al sistema.
Non ho criticato un’istituzione per farvi godere della sua caduta, ma per aprire una riflessione collettiva su come si producono diseguaglianze anche dentro gli spazi che si presentano come progressisti.
E invece, a furia di silenzi imbarazzati da una parte e strumentalizzazioni disgustate dall’altra, il dibattito vero rischia di morire. E la mia voce, rischia di essere fagocitata.
Non sono in vendita. Né alla Holden, né ai suoi nemici.
E se questa storia insegna qualcosa, è che oggi la cosa più difficile non è parlare. È farlo senza che qualcuno cerchi di usare il tuo coraggio per farci la propria bandiera
Ecco perché il loro applauso non mi inorgoglisce.
Mi ripugna.
Io non scendo a patti con i fascisti, piuttosto sparatemi in fronte e prendete bene la mira, non si sa mai.
Nel frattempo, mi hanno scritto anche persone illustri della cultura italiana. Nomi grossi, quelli che di solito vedi nei colophon, nei salotti buoni, nelle aule conferenza da 400 euro a weekend.
Persone che ho sempre reputato inarrivabili.
Io non sono stupida. So che, magari mossi da buone intenzioni, mi hanno scritto per dirmi “brava” e per esprimere vicinanza. Ma l’hanno fatto in privato. Nei fatti, nessuno ha preso posizione.
Perché discutere il proprio status quo — mettersi in gioco davvero, pubblicamente — richiede un esercizio non di dialettica ma di praticità.
E questo, evidentemente, dall’alto dei loro troni, non sanno più farlo.
Ahimé non è come andare in bicicletta: non basta risalirci per ricordarsi come si fa.
Firme famose. I volti noti. Gli intoccabili della cultura di sinistra.
Quelli che mi scrivono in privato, con messaggi carichi di commozione e puntini di sospensione. “Mi ha colpito molto quello che hai scritto.” “Finalmente qualcuno che lo dice.”
E poi, nulla.
Nessuna condivisione. Nessuna presa di posizione. Nessun rischio.
Si asciugano le lacrime con banconote da cento euro e digitano messaggi mentre ordinano un gin tonic alla presentazione del loro ennesimo libro.
“Va bene, va bene, ci hai scoperto,” sembrano dire. “Brava. Sei furba. Ora vieni da noi.
Ma sai che c’è?
Io non sono qui per risolvere il vostro dramma borghese.
Non sono qui per prendere le briciole che vi cadono dalla tavola, quando non avete più voglia di tenerle strette. Non cerco redenzione nel vostro sguardo. Cerco chiarezza.
E non mi serve il vostro permesso per pretenderla.
E come ha reagito la Scuola Holden?
Oltre alla pubblicazione — e rimozione lampo — del video, pare abbiano deciso di attivarsi anche “sul fronte interno”.
Mi è stato riferito, da più fonti interne alla scuola in ruoli diversi, che lo staff abbia contattato docenti ed ex docenti chiedendo loro di fare contro-narrazione (chissà se è vero io non lo so di sicuro magari è falso boh chi lo sa ecco facciamo che io nel dubbio non ci credo…)
Insomma: post pubblici, dichiarazioni, testimonianze su quanto la Holden sia un luogo magico, bello, giusto, formativo.
Un po’ come dire: “Oste, il vino è buono?”
Ecco il livello della controffensiva. Altro che confronto.
Ed è ovvio che non funziona. Chi oggi parla bene della Holden lo fa da una posizione visibilmente compromessa: è un ex studente che ora insegna lì, o che ci lavora, o che ha appena ricevuto una briciola di visibilità. Anche l’ultima arrivata, se in quel momento viene chiamata a insegnare, sentirà il bisogno di difendere il posto che le è stato appena concesso. Ma la realtà è un’altra.
La gente non ha idea dei messaggi privati, delle email, delle storie che mi arrivano da settimane.
Non posso condividerle anzi non voglio.
Le custodisco con cura e con gelosia, perché chi me le manda lo fa con una paura che io conosco perfettamente: quella di perdere quel poco che si ha, e di non sapere come pagare cibo e bollette.
La paura di esporsi, di finire tagliati fuori, di non essere mai più chiamati da nessuno.
Altro che narrazione collettiva: qui si sopravvive, e si sta zitti.
Se loro pensano che la contro-narrazione si faccia chiedendo ai docenti di parlare bene della scuola, facciano pure. Ma nei fatti, non è così.
La narrazione vera non sta nei comunicati stampa. Sta nei sussurri. Nelle cose dette solo in DM, o alle due di notte, quando nessuno ascolta.
Sta nelle cicatrici che non fanno carriera.
Intanto io nella stampa italiana, nei social e tra i commenti: scomparivo.
Non come presenza — quella continuava a circolare ovunque — ma come persona.
Nei titoli e negli articoli, non ero mai “Giulia”. Ero “la ex studentessa”.
O, peggio, “la ex studentessa arrabbiata”. La figura già pronta, già impacchettata: una che non ha avuto quello che voleva, una delusa, una frustrata.
Il sottotesto è chiaro: pensava di comprare il successo con i soldi. Non le è riuscito. Ora si lamenta.
Che, oltre a essere falso, è un meccanismo di deumanizzazione sottilissimo. Mi toglie voce, identità, complessità.
E soprattutto distorce tutto: perché non è mai stato quello il punto.
Non lo è stato il giorno in cui ho scritto il post, non lo è adesso che lo leggete.
Io non mi sono lamentata di non aver sfondato.
Mi sono incazzata per un sistema che lucra sulle ambizioni, che promette reti e visibilità a pagamento, che seleziona chi può parlare in base a chi può permettersi di pagare. Non ho detto “non mi è andata bene”. Ho detto: non va bene così e c’è una bella differenza. Che però conviene ignorare, se si vuole ridurre tutto a un “caso umano” utile a riempire due righe o due tweet.
E mentre tutto questo accadeva, su MOW è uscito un articolo firmato da Leonardo Caffo.
Sì, proprio lui. Lo stesso incriminato per aver aggredito la sua ex compagna.
Una persona che è stata allontanata da contesti culturali, festival, università. E — sorpresa sorpresa — anche dalla Holden.
Dove insegnava. E ora, guarda un po’, rispunta per difenderla.
Contro di me, contro chi critica, contro chi pone domande scomode. Parla di “demagogia”, di “anticapitalismo da social”, di giustizialismo digitale. Come se a fare male fosse la voce di chi denuncia, e non il sistema che la denuncia rende necessaria.
Ed è proprio questo il paradosso più grande: che in questa storia, a difendere la scuola dei sogni sia uno che per anni ha potuto insegnare impunemente, finché le sue azioni sono diventate troppo grosse per essere ignorate.
Ma anche qui, tutto torna. Perché questa non è solo una scuola. È un microcosmo. Dove chi ha potere si protegge a vicenda. Dove la reputazione conta più della responsabilità. Dove si può essere banditi dal mondo e ancora invitati a parlare, purché si dica la cosa giusta nel momento giusto.
Lunga vita alla Holden, scrive.
Certo.
Lunga vita alle scuole che non sanno più riconoscere da cosa dovrebbero difendersi.
E come se tutto questo non bastasse, arriva anche il momento del comico.
Nel suo podcast, Luca Bizzarri racconta che ai tempi della scuola di recitazione bullizzavano sempre un ragazzo.
Perché? Boh. Non si capisce. Non è chiaro se sia un mea culpa, una nostalgia, una metafora. L’unica cosa certa è che si passa da lì — da quel ricordo vago e inquietante — direttamente a me. Mi definisce “L’Addolorata”. Dice che sono una “poveraccia che non è riuscita a stare dietro alle dinamiche”.
Alle quali dinamiche, scusate? Di che parla?
Cosa c’entra il bullismo con il fatto che ho denunciato un sistema elitario, costoso, opaco? Cosa c’entra il dolore, la fragilità, con la mia lucidità nel raccontare un’esperienza?
Semplice: non c’entra.
Ma serve. Serve a costruire un’immagine, una caricatura, un bersaglio. Serve a ridere sopra, a semplificare, a chiudere la faccenda con un ghigno. Perché ascoltare è faticoso.
È più comodo ridere.
È più facile dire che una è esagerata, che è rimasta indietro, che non ha capito. Che è una “addolorata”, appunto.
Non una donna che ha parlato chiaro.
Non una cittadina che ha chiesto trasparenza.
Non una ex studentessa che ha detto: così non va.
Ma in fondo è sempre lo stesso schema: chi alza la testa viene ridicolizzato, etichettato, infantilizzato.
Meglio se donna, meglio se non allineata, meglio se isolabile. E intanto il problema resta lì, intatto. Intoccato.
Vorrei chiudere questo articolo con delle cose belle sennò non si dorme più stanotte:
1. Si, questo weekend registro le altre puntate del podcast, pietà di me stavo facendo un trasloco.
2. Ringrazio le seguenti persone che ho incontrato in questo pazzo pazzo mese:
Giovanni Arduino, Valentina Mira, Charlotte Matteini, Giulio Cavalli, Ambra Stancampiano, Nat e altre che non posso citare - sempre per quella paura di non pagare più l’affitto. Non so cosa ne sarebbe di me senza il vostro umano e genuino supporto ad una causa che alla fine diciamocelo, vi porterà solamente solo tante rotture di coglioni (vabbè ve le ha già portate).
Soprattutto: ringrazio mia madre che nonostante fosse in ospedale è sempre stata accanto a me con presenza, cura, attenzione e amore. Grazie mamma e ti perdono per avermi fatto conoscere la Holden e avermela pagata (scherzo…).
Dispiace sentire che siamo arrivati di nuovo a un copione ben conosciuto: l'invidia (che mi ricorda tanto "le femministe sono tutte brutte", usato dai tempi delle suffragette per tentare di sminuire una voce rabbiosa che rivendica un diritto sacrosanto) e la mancanza di tempra, un grande classico per dire ai bullizzati che è sempre stata colpa loro. La tua voce è arrivata ben chiara però a chi aveva bisogno di non sentirsi solo e si è riconosciuto nel tuo sentimento, e purtroppo siamo tanti.
Questa è da tatuare perché contiene tutto: "Io non sono qui per risolvere il vostro dramma borghese".
Il sistema culturale italiano deve crollare per poter rinascere dalle sue ceneri come una fenice?
Non lo so. Ma se continuano a parlare a se stessi, perdono di vista i lettori. Soprattutto quelli di domani.