Tutto buccia e niente polpa.
Ho letto il nuovo libro di Fedez solo per voi (giuro).
Fedez, maestro nel mixare pubblico e privato, impartisce un’altra lezione spietata: per scrivere un bestseller non serve aver studiato, né frequentare scuole di scrittura da migliaia di euro. Basta essere ricchi e credere molto nella propria genialità.
L’acqua è più profonda di come sembra da sopra non è il solito libro da influencer, venduto come gadget insieme alle magliette o agli sticker del podcast.
È diverso perché Fedez, con ammirevole presunzione, ha voluto scriverlo da solo - e purtroppo si nota. Non tanto per la scrittura, che nel 2025 l’IA avrebbe potuto quantomeno ripulire, ma per l’arroganza di fondo: allegorie buttate a caso, riferimenti presi da Wikipedia, frasi tipo “Se vuoi far vedere che sei solo bello e figo, allora diventa un documentario governativo del Partito comunista cinese”. Parole in libertà, direbbe mio padre.
Questo è il suo eterno difetto di forma: mescolare populismo becero e finta critica sociale.
Nel rap funziona, nel freestyle pure, ma in un libro diventa semplicemente imbarazzante. “Non è vanità né strategia” scrive lui perché in realtà è molto peggio perché è una perfetta operazione di rebranding. Un tentativo di riposizionarsi, cambiare target e monetizzare il nuovo personaggio - non più il padre “un po’ matto”, ma l’anti-eroe, il Bojack Horseman di Rozzano, o per usare un riferimento letterario, il nuovo Holden.
In un’epoca in cui “buono” è diventato un insulto e “buonista” la nuova bestemmia, l’obiettivo non è più dire la verità, ma sembrare onesti.
Fedez lo ha capito benissimo perché se ti auto-definisci “uno stronzo” e come ha dichiarato nel canale YouTube di Mondadori da Gianluca Gotto “Volevo chiamare il libro ‘Autopsia di uno stronzo’” ti immunizzi dal giudizio. È un vaccino morale che funziona soprattutto su un pubblico maschile giovane, quello che sogna di essere l’outsider che “ce l’ha fatta” ma resta puro nel disastro.
Il problema è che Fedez è il sequel di se stesso e come tutti i sequel non aggiunge niente. Funziona solo se l’obiettivo è continuare a monetizzare la propria esistenza e non sarebbe neppure scandaloso (ogni artista vive del proprio vissuto) se non fosse per il dettaglio cruciale: Fedez non sembra un uomo che si racconta, ma un algoritmo che tenta disperatamente di capirsi. E fallisce pure in quello.
Fedez è la perfetta incarnazione del narcisismo vulnerabile: uno che non riesce a esistere se non attraverso il racconto di sé.
Alterna lucidità e delirio come chi ha confuso la diagnosi con la sceneggiatura e nel libro parla apertamente di psicofarmaci, ma lo fa con lo stesso tono con cui parlerebbe di un nuovo tatuaggio. Li nomina, li interrompe, li cambia, li tratta come fasi di un percorso spirituale invece che medico. Sospende la psicoterapia perché “non si riconosce più nel metodo”, salvo poi affidarsi a un mental coach (figura mitologica che in Italia ha preso il posto dello psicanalista), promettendo motivazione invece di elaborazione. Il libro nelle parti che riguardano la psicologia, vorrebbe addentrarsi in definizioni, nome di farmaci, spiegazioni da DSM con narrazione tra l’onirico ed il pornografico del suo suicidio e della lettera ai figli, problema vuole che questa nel lettore può generare due cose: emulazione o imbarazzo. Emulazione verso i più giovani, perché parlare di psicofarmaci come caramelle in un momento storico dove la salute mentale è ai minimi storici, può demotivare chi legge e si rivede nel suo dolore, a desistere dal curarsi. Imbarazzo invece per chi legge e si rende conto di ciò che ho detto in precedenza.
Non tutto quello che abbiamo vissuto deve necessariamente essere esposto al più becero del capitalismo del dolore, ma tanto Fedez ha da insegnare a oltre cento anni di psicoterapia perché “Non faccio neanche più psicoterapia (…) Dovrei tornarci, o forse no. Quello che Freud doveva darmi, credo me l’abbia dato”.
Il risultato è un cortocircuito perfetto: la salute mentale ridotta a stories.
Gli psicofarmaci diventano segno di autenticità, la terapia un atto di branding, e quando decide di smettere tutto, la scelta viene presentata come un atto di coraggio, non come un potenziale rischio. È l’estetica del dolore autogestito: meglio soffrire pubblicamente che guarire in silenzio.
Poi arrivano le “foglie del destino”, il punto più teneramente surreale del libro.
Foglie raccolte per strada in India, trasformate in oracoli da leggere come i biglietti dei Baci Perugina: oggetti magici che “parlano” e indicano la via. È la versione esoterica del suo algoritmo mentale perché se la psicanalisi non funziona e il coach non basta, tanto vale affidarsi alla botanica dell’autosuggestione. Lì il dolore diventa un segnale mistico, non un sintomo. Questa deriva spirituale dimostra il nucleo patologico del suo rapporto con la vulnerabilità, non la vive, la produce ed ogni fase di guarigione è una stagione di contenuti, ogni farmaco sospeso un cliffhanger.
Non esiste un “dopo” per chi deve restare in crisi per mantenere la propria narrazione.
In Fedez, la psicologia diventa estetica, e la terapia un set dismesso dove continuare a recitare anche senza telecamere. Per rendere credibile l’anti-eroe, Fedez sceglie avversari simbolici e ci si specchia contro: con Marco Travaglio passa dal culto alla scomunica e da “baluardo dell’informazione” a esempio di coerenza a geometria variabile, culminando nello scontro a Muschio Selvaggio dove lui ribalta il tavolo e accusa il direttore di predicare bene e dispensare lezioncine solo agli altri. È un set perfetto: il discepolo deluso che denuncia il maestro, così la sua caduta appare come un atto di igiene morale, non di risentimento. Il dettaglio su “non mi piace fare i processi agli assenti” e la replica sulla “Wanna Marchi” sono la benzina narrativa che gli serve per indossare la maschera del ribelle pulitore di ipocrisie. Funziona perché lo posiziona non come innocente, ma come colpevole che attacca colpe più grandi.
Con Selvaggia Lucarelli alza ulteriormente la posta.
Non contesta un singolo pezzo, mette sotto processo “il metodo Lucarelli”, dal caso del ragazzo morso dallo squalo fino alle presunte doppie misure con altre influencer, legando la sua indignazione a interessi di management e reti di protezione. Così trasforma la polemica personale in tesi generale perché “non sono io che sbaglio, è un sistema che usa il fango come potere”. Il messaggio è chirurgico per l’archetipo dell’anti-eroe: io ammetto i miei errori, ma non accetto tribunali a gettone.
Infine Luis Sal, qui il “tradimento” è domestico, quindi più intimo e utile alla narrativa. Fedez racconta di aver costruito, sostenuto, aperto porte e portafogli relazionali, per poi essere colpito nel momento di massima fragilità, tra psicofarmaci, Sanremo e matrimonio in frana. Ne esce la figura dell’amico ferito che però resta manager di se stesso: lutto vero, sì, ma anche perizia nel convertire la frattura in arco narrativo di perdita e rinascita. È l’anti-eroe che piange, fattura e chiude il capitolo come chi sapeva già di doverlo raccontare. La sua morale comunicativa è la seguente : sceglie bersagli riconoscibili, spiega che il loro modo di stare al mondo è peggiore del tuo, e incastra ogni rottura in una cornice etica.
Così l’errore diventa risorsa simbolica, la confessione diventa brand, e l’anti-eroe smette di chiedere perdono perché gli basta avere ragione nel montaggio.
Ma arriviamo al cuore del libro, cioè al motivo per cui venderà montagne di copie: il matrimonio con Chiara Ferragni. Fedez finge di allontanarsi con eleganza dal conflitto tra le due aziende – pardon, persone – sostenendo che “i Ferragnez non sono mai stati un brand”. È una bugia travestita da modestia. Per carità, non erano una s.r.l., ma se per brand intendiamo la capacità di vendere un’idea di mondo, di relazione e di famiglia perfettamente confezionata e poi moltiplicata in linee di prodotto, allora sì: i Ferragnez erano un brand, e pure un brand vincente.
Molti hanno già analizzato la loro strategia di comunicazione, quindi inutile dilungarsi.
Il punto è che il rebranding di Fedez parte proprio da qui, dal bisogno di smarcarsi dai Ferragnez e creare uno spin-off personale.
Dice di voler “svelare i retroscena”, ma ciò che emerge è l’ex marito che prova, con meticolosa ferocia, a ridimensionare la moglie. La descrive come ingenua, troppo buona per riconoscere il male, quindi inevitabilmente manipolabile - il sotto-testo nemmeno tanto nascosto. Se lui è Bojack, lei è Mr. Peanutbutter: solare, superficiale, condannata a non capire la profondità del genio in crisi. Non si tratta di gossip, anche se lo scenario (i tradimenti, Sanremo, Fabrizio Corona che pascola sui resti di una coppia con due figli minorenni già esposti al pubblico fin dall’ecografia) sembra pronto per Chi. È narrazione di potere, non cronaca rosa, è la contrapposizione tra il femminile da correggere e il maschile che si redime. “Non volevo tradirla, ma la relazione mi stava stretta.” “Lei non è una vera imprenditrice, io ho sempre fatturato il doppio.” Sono frasi che riducono la portata mediatica e professionale di Ferragni per restituire centralità al suo ego ferito.
Persino quando ne parla con nostalgia, la rimette al suo posto: come donna, come collega, come partner e la rivendica solo per ricordarci quanto “bel sesso” facevano, perché anche il desiderio diventa strumento narrativo. Tutto serve a un unico scopo: depotenziarla per potersi reincarnare. La svalutazione di lei è la condizione necessaria per la rinascita di lui.
L’acqua è più profonda di come sembra da sopra non è davvero un memoir, e neppure un atto di confessione ma bensì è un dispositivo narrativo perfettamente congegnato, la dimostrazione che oggi la fragilità può essere una forma di potere, e che il dolore, se ben montato, diventa una risorsa di comunicazione. Fedez non scrive per chiudere un capitolo, ma per aprirne uno nuovo, per rimettere in moto la propria macchina simbolica, quella che si alimenta di cadute, risalite e ferite da esibire.
Il libro è la continuazione del suo reality personale con altri mezzi: una messa in scena calibrata in cui ogni momento di debolezza serve a consolidare il marchio. Se poi non vieni chiamato come ospite a One more time perché sappiamo fin troppo di te, tanto vale usare la stessa grammatica e gli stessi codici narrativi ed estetici di Luca Casadei ma da Gianluca Gotto.
In questo senso Fedez ha inventato, o quantomeno perfezionato, la figura del martire pop, una categoria che gli appartiene con fin troppa naturalezza.
È fallibile, impulsivo, eccessivo, spesso contraddittorio, ma a livello di narrativa è imbattibile e ha intuito che nel mondo post-ironico non conta più la coerenza né la virtù, ma la capacità di rimanere visibili anche nel collasso. La sua autenticità è architettata, certo, ma è proprio questa costruzione consapevole a renderla efficace. Non finge di essere integro, preferisce mostrarsi incrinato, e in questo riesce dove molti falliscono ovvero a trasformare la propria esposizione in materia drammaturgica.
Il libro scorre come una stagione di una serie che non prevede finale perché la trama è irrilevante, quello che importa è il mantenimento del personaggio, la costanza del sintomo. Fedez non si redime e non guarisce, si riproduce, come i funghi. Ogni crisi diventa un aggiornamento, ogni sconfitta una nuova puntata del suo interminabile racconto di sé e non cerca perdono, ma continuità di pubblico; non un ritorno alla normalità, ma un nuovo frame in cui collocarsi. È un modello perfetto di sopravvivenza mediatica: l’uomo che cade senza mai smettere di filmarsi.
È a tutti gli effetti un anti-eroe del marketing sentimentale.
Uno che non ha bisogno di salvezza, ma solo di connessione e la sua forza è nell’essere sempre “in diretta”, nel tenere aperta la ferita perché è l’unico modo per farla rendere. Ogni dolore diventa racconto, ogni racconto moneta. Non importa più quanto c’è di vero, conta quanto riesce a restare presente e così Fedez non si salva, ma resiste, galleggia, persiste nella luce dei riflettori come chi ha trasformato il proprio naufragio in un mestiere.


bravissima, la definizione MARTIRE POP è la fotografia perfetta per quel genere di personaggi che fanno della continua dolenza la loro cifra stilistica. Detto ciò, mi addolora molto che primarie editrici pubblichino lavori simili. E va bene che devono far cassa anche per poter pubblicare opere meritevoli e bla bla. Però.
Il solito scalpello chirurgico (è un complimento, sia chiaro). Questa volta più facile del solito.