Terzo ha ventisette anni e ventimila euro sulle spalle, non di debiti ma di vergogna. Ha studiato alla Scuola Holden convinto che servisse a diventare uno scrittore, e invece ha imparato come funziona davvero la filiera della cultura: si parte dal sogno e si finisce come materiale umano per un brand.
Per due anni gli hanno venduto empatia, fragilità, libertà creativa.
Parole bellissime, usate per coprire un meccanismo feroce, gli hanno chiesto di scavarsi dentro, di raccontare “il proprio dolore più intimo”, poi lo hanno deriso, patologizzato, escluso. L’hanno chiamata formazione, ma era spettacolarizzazione del trauma, confezionata per sembrare profondità.
Quando non è stato più utile, lo hanno fatto sparire nel modo più pulito: senza mail, senza spiegazioni, senza un “sei fuori”. Solo silenzio, il gaslighting istituzionale come metodo educativo. Nel frattempo, i volti spendibili continuavano a sfilare davanti agli editori, i “maneggevoli”, quelli con le storie giuste, quelle che non fanno paura, quelle che si vendono bene nelle brochure.
Fuori da lì, restano la depressione, i farmaci, i neon del supermercato che bruciano negli occhi, e il sospetto che il vero prodotto della scuola non siano gli scrittori, ma il capitale emotivo di chi ci ha creduto.
È la storia di un ragazzo che ha pagato ventimila euro per imparare a raccontare, e alla fine ha scoperto che l’unica narrazione che gli restava era la propria disfatta.
Una storia che non è un caso isolato, ma la diagnosi di un intero sistema culturale che monetizza l’instabilità, la rabbia e il dolore dei suoi studenti in nome del “talento”.
Buon ascolto.
Le velleità
Quando i soldi sono troppi o troppo pochi. Un podcast narrativo che raccoglie le testimonianze di chi ha frequentato la Scuola Holden. C’è chi l’ha amata, chi ne è uscitə delusə, chi ancora non sa bene cosa sia successo. Ogni voce ha valore, ogni esperienza è valida. Le storie vengono inviate via mail, lette e interpretate da me, con l’identità che ognunə sceglie di mostrare — o proteggere. “Le Velleità” non è un’accusa né una celebrazione. È uno spazio di memoria collettiva, per raccontare cosa succede dopo aver inseguito un sogno narrativo.







