San Damiano il docufilm di Gregorio Sassoli e Alejandro Cifuentes
Il Satyricon di Fellini a Roma Termini.
Questo post è un’analisi del docufilm vista dal mio punto di vista. Impossibile parlare davvero di cinema senza inciampare negli spoiler: se dobbiamo discutere la storia, dobbiamo anche svelarla. Quindi semplicemente se non vuoi anticipazioni, guardalo prima o chiedi che lo proiettino nel cinema della tua città.
Sinossi ufficiale del film presa dal sito del Cinema Massimo Torino:
Fuggito da un ospedale psichiatrico in Polonia, Damian arriva a Roma e si rifugia in una torre sulle mura antiche, deciso a non vivere come un senzatetto e sognando di diventare cantante. L’incontro con Sofia e il microcosmo della comunità invisibile della stazione Termini lo trascinano in un mondo duro ma pieno di umanità, dove amore, follia e desiderio di riscatto si intrecciano in sottili equilibri.
Da ora in avanti: spoiler allert.
Roma Termini ha davvero quei colori del film. Rivedere quella zona, e San Lorenzo - il quartiere dove ho vissuto, che già prima abitavo troppo spesso - dopo due anni è stato straniante. È un posto che ho voluto chiamare casa, ed è anche quello da cui sono scappata. Forse è proprio questo, in fondo, il significato di casa: un luogo da cui devi fuggire per riuscire a crescere.
Abitavo in fondo a via dei Volsci. Chi conosce la zona sa di cosa parlo: un bilocale minuscolo, trenta metri quadri scarsi, e pure mal distribuiti, a pochi numeri dalle mura di San Lorenzo. Di quel quartiere so tutto, ogni crepa e ogni odore. E a volte me lo sento ancora addosso: fa un male cane.
A San Lorenzo la metro non c’è, quindi avevo tre opzioni: aspettare il 71 dietro casa (e non passava mai), fare due fermate fino a via Giolitti, oppure salire tutta via Marsala. Col tempo capisci che il problema non è la distanza, è Roma Termini. Prendere la metro lì è un delirio: due piani di scale, corridoi infiniti, turisti ovunque. Alla fine impari che se devi prendere la A ti conviene andare a Piazza Vittorio, se invece prendi la B è meglio Castro Pretorio.
E allora perché vi sto raccontando tutto questo? Cosa c’entra con il docufilm San Damiano? Niente. O forse tutto. Guardandolo ho rivisto quei posti che ho abitato, e mi ha fatto uno strano effetto: bello, triste, complicato. Strano nel modo in cui solo le cose che hai davvero vissuto sanno esserlo. Perché il cinema, si sa, “fa il cinema”: Roma diventa sempre quella che l’autore vuole vedere. Eppure, per una volta, io ho rivisto la mia.
San Damiano si apre con chi Roma Termini la abita davvero: non i pendolari, non i turisti, ma quelli che una casa l’hanno avuta e poi l’hanno persa, o ci sono fuggiti.
Via Giolitti, quella del trenino giallo e dei bus per l’aeroporto, del Mercato Centrale e del McDonald’s in fondo, è un confine tra chi parte e chi resta. Lì vivono persone che si costruiscono dimore che sembrano provvisorie, ma non lo sono mai del tutto: cartoni piegati come pareti, sacchi che diventano armadi, persone che restano per mesi. Non cercano guai, cercano tregua. Stanno lì e dormono, ogni notte un po’ più radicati nell’asfalto, coperto dai cartoni, per sentire meno l’umido dell’asfalto e non morire assiderati.
Via Marsala invece è più scomposta. Le dimore non durano, si spostano con chi le abita. È una comunità nomade, rumorosa, spesso ubriaca, fatta, ma viva. Si beve insieme, si mangia insieme, si condivide tutto. È una famiglia senza sangue in comune, quella che la nostra società, quando vuole sentirsi progressista, chiama “polecola”. Se proprio dobbiamo trovare un termine elegante, potremmo dire “non tradizionale”. Ma anche questo, alla fine, è sbagliato e tutti i termini sono sbagliati per descrivere Roma Termini. Perché lì, tra le mura invisibili e visibili, non c’è niente da definire. C’è solo gente che resiste.
Incontriamo Damiano, giovane, difficile dire quanti anni abbia. Polacco, appena arrivato da Reggio Calabria, cresciuto in Polonia. Porta addosso una neurodiversità evidente e una lucidità che spiazza, linea invisibile tra noi siamo quelli che non c’hanno capito un cazzo della vita e lui è quello che ha bisogno di aiuto per vivere. Non è un Caronte, non accompagna nessuno: semplicemente esiste, e nel farlo ci mostra com’è vivere a Roma Termini. “Io non sono un barbone” dice nel film, con la certezza di chi sa chi è. E in effetti no: Damiano è il re delle Mura Aureliane di San Lorenzo.
Riportato da Wikipedia: Le Mura aureliane sono una cinta muraria costruita tra il 270e il 275 d.C. dall’imperatore Aureliano per difendere Roma, allora capitale dell’Impero romano, da eventuali attacchi delle popolazioni di barbari che iniziavano a penetrare la compagine dell’impero.
Damiano vuole fare il cantante, e non esiste al mondo un desiderio più grande del suo. Sopra le mura si è costruito una casa con vista su Roma Termini: lì si lava, scrive, ospita gli amici, scopa, ride, piange, si racconta in modo disordinato e vivo. Il docufilm potrebbe sembrare un tentativo di mettere ordine nella sua storia, ma non lo è. I registi osservano soltanto, non intervengono mai.
Nemmeno quando le cose si mettono male. Nemmeno quando Damiano si sfascia tutto, quando fa l’amore, quando si lava, quando beve, quando piange. Nemmeno quando, alla fine, perché l’amore fa male, appicca un incendio e arrivano i pompieri con la scala aerea. Finisce in carcere, e siccome una casa non ce l’ha, i domiciliari non può farli. Così sconta la pena e poi viene trasferito in un ospedale psichiatrico in Polonia.
Damiano, in realtà, non è mai solo. C’è Sofia, la sua fidanzata - o almeno così si definisce lei. Lui, imbarazzato, svia e la chiama “un’amica”. Poi Sofia si lega a un uomo molto più anziano, Costantino, che vive in una casa nei dintorni di Termini. Costantino ha perso una figlia in un incidente e una moglie morta di dolore: vive dentro un lutto senza fine.
Damiano è geloso, gelosissimo. Ma Sofia, pur avendo una dipendenza e mille fragilità, resta una donna ostinatamente libera. Ama Damiano, e nonostante potrebbe approfittare di Costantino, sceglie la strada. Resta accanto a Damiano, chiedendo l’elemosina a Porta Maggiore, nel caos continuo di bus, tram e macchine.
Tra i vari - non li chiamerò personaggi, sarebbe un insulto - tra gli abitanti di Roma Termini c’è Alessio. È sardo, ha avuto una dipendenza da eroina, vive per strada e con Damiano condivide tutto. Il loro rapporto è fluido, e sì, lo so che è una parola da bianca privilegiata occidentale, ma mi serve per farvi capire.
Alessio ha due tatuaggi sul petto, i nomi dei suoi figli. I pochi soldi che raccatta dalle fontane, o che ogni tanto gli manda il padre - ottanta euro, da prelevare - li spende per comprare fumo da dividere con Damiano.
Tra loro c’è un legame che non ha confini di ruolo, genere o età. Si vogliono bene, si fanno ridere, giocano come bambini tra le macerie, nella spazzatura, dentro la miseria.
San Damiano è, in fondo, un nuovo Satyricon, non un remake di Freaks. Il riferimento “giusto” sembrerebbe quello del film di Tod Browning del 1932: il circo dei corpi anomali, l’umanità deformata che diventa spettacolo, i “mostri” che si ribellano al pubblico borghese che li osserva. Ma i senza dimora di Roma Termini non sono freaks, perché non interpretano nessun ruolo. Non cercano pietà, non chiedono di essere guardati. Esistono, e questo basta.
Il loro corpo non è messo in scena per scioccare, ma per testimoniare. Non ci sono deformità, solo stanchezza, dipendenze, cicatrici, sogni che sopravvivono tra le bottiglie di birra, droga, spazzatura e i muri pieni di graffiti delle gallerie che collegano Roma Termini al quartiere San Lorenzo. Chiamarli freaks sarebbe come appiccicare una cornice al dolore per renderlo accettabile.
Il parallelo vero è con Fellini. Come Encolpio, Ascilto e Gitone nel Satyricon, Damiano, Sofia e Alessio e tutti gli altri e altre abitanti vagano in un impero in rovina: non quello di Nerone, ma quello della contemporaneità, dove la povertà è invisibile e la follia è privata di mistero. Encolpio e Ascilto viaggiano tra orge, deserti e banchetti surreali, inseguendo il piacere come unico senso possibile; Damiano sogna di cantare, Sofia cerca amore tra un bicchiere e un abbraccio, Alessio si aggrappa alla condivisione come a una fede.
In Fellini, i personaggi vivono ai margini del mito; in San Damiano, vivono ai margini della città. Entrambi i mondi sono residui di civiltà in decomposizione, dove l’umanità resiste in forme distorte, poetiche, disperate. Fellini trasformava Roma in un teatro sacro e osceno; qui Roma è Termini, con le sue mura, i bus, i materassi e la miseria quotidiana che non ha più bisogno di metafora.
San Damiano non vuole normalizzare né esibire: lascia che i suoi abitanti si raccontino, che cadano, ridano, scopino, brucino, sopravvivano. Come nel Satyricon, il mondo finisce e nessuno se ne accorge. Ma a differenza di Freaks, qui non c’è vendetta, solo vita che continua a pulsare nelle rovine.
Le critiche rivolte a San Damiano sono legittime, ma spesso mancano il bersaglio. Si accusa il film di estetizzare la sofferenza, di sfruttare la vulnerabilità altrui, di non fornire contesto né interpretazione politica. Ma la verità è che il film rifiuta consapevolmente il linguaggio della mediazione, quello che trasforma la povertà in materia da convegno e la follia in statistica.
I registi non parlano su Damiano, Sofia e Alessio e di tutti gli altri e le altre: parlano con loro. Hanno lasciato che la realtà si mostrasse da sola, senza commento, senza voce esperta a sterilizzare l’impatto. Perché non servono mediatori quando la vita si racconta da sé. Quella che molti leggono come assenza di responsabilità è, in realtà, un atto di fiducia: riconoscere a chi vive ai margini la capacità di rappresentarsi, di parlare, di essere soggetto e non oggetto di narrazione.
Dire che San Damiano è voyeurismo significa non aver capito che lo sguardo qui non è dall’alto, ma dal fianco. È un film che non assolve lo spettatore, non gli offre la distanza protettiva del documentario “beneducato”. Ti mette dentro la puzza, il vomito, il sangue, la miseria, il desiderio, la vergogna, senza tradurli. Ti costringe a sentire, non a capire.
Come ricordava Basaglia, la follia non viene mai ascoltata per ciò che dice. Il film fa proprio questo: ascolta. Damiano non è un fenomeno da studiare, ma un artista che vive l’urgenza di inventarsi un linguaggio nuovo perché quello convenzionale non gli basta. La sua voce non chiede pietà, chiede e pretende il suo spazio.
San Damiano non estetizza la miseria, la restituisce nella sua forma più onesta: quella che non si lascia addomesticare.
E la domanda che lascia non è “cosa pensa l’autore?”, ma “cosa fai tu, ora che l’hai visto?”.









