No, non sono semplici chat tra amici
Ne uccide più i gruppi whatsapp, poverine...
Aggiornamento del 5 Novembre 2025:
Dopo uno scambio (a mio avviso piuttosto discutibile) con una delle persone indagate, Benedetta Sabene, ho deciso di modificare leggermente l’articolo qui sotto per evitare fraintendimenti - che, a dire il vero, nella versione precedente secondo me non c’erano.
Benedetta Sabene ha commentato sostenendo che nel mio pezzo ci sarebbero “affermazioni false e da rettificare”, e che io avrei “diffuso informazioni non veritiere” sul suo coinvolgimento nella vicenda. Le ho risposto chiarendo che non c’è alcuna falsità perché ho riportato quanto risulta da fonti di cronaca pubbliche ovvero che è formalmente indagata dalla Procura di Monza insieme a Valeria Fonte e Carlotta Vagnoli per stalking e diffamazione aggravata.
Ho anche ribadito che nel mio articolo non ho mai scritto che fosse parte della chat “Fascistella”, né ho riportato elementi non presenti negli atti pubblici. Tutto ciò che ho scritto rientra nel diritto di critica e di analisi di fatti di dominio pubblico, senza nessuna violazione della privacy o intenzione diffamatoria.
Per evitare che qualcuno finga di non capire, da ora in poi mi riferirò semplicemente a “le chat” in senso generico, così da eliminare ogni possibile pretesto polemico.
Non perché ci fosse davvero un problema, ma perché, come si dice, meglio allontanare la puzza.
In ogni caso per evitare ogni qualsivoglia dubbio dalla pagina Wikipedia di Carlotta Vagnoli:
Il 31 ottobre 2025 Il Fatto Quotidiano pubblica gli stralci di un gruppo Whatsapp, acquisito negli atti dell’inchiesta della Procura di Monza.
Le persone formalmente indagate sono tre: Carlotta Vagnoli, Valeria Fonte e Benedetta Sabene, sebbene nelle chat ci fossero anche altri partecipanti che ad oggi non risultano indagati e indagate. Il materiale comprende messaggi, battute, commenti e insulti rivolti a colleghe, giornalisti e figure pubbliche e nel giro di poche ore, i social si riempiono di repliche e giustificazioni, di “sfoghi privati”, “chiacchiere tra amiche”, “frasi estrapolate dal contesto”.
È il riflesso pavloviano di ogni scandalo digitale: ridurre tutto a una questione emotiva, negare la struttura di potere e invocare la confidenza come attenuante morale. Ma qui nessuno è “privato” da anni e quando la tua voce è un mestiere, quando la tua reputazione e i tuoi contratti dipendono dalla parola pubblica, non puoi trattare la parola privata come se vivesse in un’altra dimensione.
Il linguaggio non è mai neutro e chi lo maneggia per professione lo sa meglio di chiunque. Quelle conversazioni non raccontano intimità ma anzi sono una mappa di potere, uno spazio dove la violenza simbolica assume la forma dell’ironia, dove la solidarietà “tra pari” diventa meccanismo di esclusione e di legittimazione reciproca.
Non sono chat, è un habitat, ci mostra in che modo alcune persone che di mestiere parlano di società e politica, possono abusare del loro potere. E il “tra amiche” è solo il modo elegante di dire “non vogliamo rispondere di ciò che abbiamo costruito insieme”.
Posso parlare di questa vicenda solo attenendomi a fonti di cronaca pubbliche, atti già resi noti e dichiarazioni ufficiali. Tutto ciò che segue rientra nel diritto di critica e di analisi di fatti pubblici, non in rivelazioni private. Nessuna indiscrezione, solo lettura politica e culturale di materiali già disponibili al pubblico.
Le parole non descrivono e basta ma costruiscono.
È una legge elementare della comunicazione, ma sembra sparire ogni volta che qualcuno viene scoperto a usarle per ferire. Eppure, chi lavora con le parole lo sa bene: il linguaggio è azione. In delle chat su whatsapp insultare, ridicolizzare, compilare elenchi di persone sgradite non è un gioco, è una pratica di potere. Ogni messaggio condiviso è una decisione, ogni risata in chat è un atto di complicità.
Perché dico “di potere”? Perché quando si parla di questa notizia, conviene ricordare chi c’era dentro: non sono nomi qualsiasi pescati da un gruppo di venti persone a caso ma sono figure pubbliche con un’audience complessiva che supera il milione di follower. Non parliamo di utenti, ma di brand morali, aziende di comunicazione incarnate in singole persone, ognuna con un proprio posizionamento, un pubblico e un’identità narrativa costruita con la precisione di una campagna pubblicitaria.
Il loro peso non si misura in like ma in egemonia culturale.
Quando chi scrive libri sulla responsabilità del linguaggio si ritrova a praticare odio organizzato, il problema non è l’errore umano ma è la tenuta etica di un potere culturale. L’incoerenza, in questo caso, non è dettaglio: è la crepa strutturale di un sistema che predica gentilezza ma vive di violenza simbolica. Le chat non mostrano “momenti di sfogo”, ma un linguaggio politico che coincide con la gestione della reputazione altrui, con la costruzione di gerarchie dentro lo stesso mondo progressista che dicono di voler umanizzare.
In questo contesto, la parola “privato” non protegge l’intimità ma la reputazione commerciale. Serve a salvare il brand, non la persona. È la sitcom di chi scopre troppo tardi che la propria autenticità era un reality e ora pretende di spegnere le telecamere a stagione finita.
Le conversazioni non hanno nulla dell’intimità promessa: assomigliano piuttosto a una sala di regia morale, dove si stabilisce chi merita empatia e chi invece può essere demolito. È un meccanismo di gatekeeping (Il termine può riferirsi a chi, in una posizione di potere o ruolo, decide chi può entrare o partecipare, creando barriere e limitando la diffusione di informazioni) travestito da confidenza, una piccola redazione dell’odio che impagina quotidianamente le gerarchie del femminismo digitale.
La contraddizione diventa quasi teatrale se non surreale.
Carlotta Vagnoli, nei suoi libri (prendo in causa i due libri Poverine e Maledetta sfortuna) costruisce la propria identità pubblica sull’idea che la parola sia responsabilità, che il linguaggio possa curare e restituire dignità a chi ne è stato privato. Parla di “etica della cronaca”, di “sguardo rispettoso”, di “uscire dalla pornografia del dolore”. Valeria Fonte, in Ne uccide più la lingua, scrive che le parole “sono l’arma più antica”, che chi le usa deve farlo con consapevolezza, perché ogni frase può ferire o liberare mentre in Vittime mai ribadisce che la narrazione mediatica della violenza non deve scadere nella crudeltà o nell’esibizione.
Eppure, nelle chat che ora difendono come “sfoghi tra amiche”, le due autrici compiono esattamente ciò che i loro testi denunciano.
Usano il linguaggio per colpire, per ridicolizzare, per esercitare dominio simbolico su altre donne. La cura delle parole si rovescia in cinismo, la solidarietà femminista in alleanza punitiva. È il trionfo di quella stessa violenza verbale che altrove chiamano tossica, solo spostata di qualche centimetro, abbastanza da illudersi che sia innocua.
Il problema, qui, non è l’incoerenza personale, ma l’evidenza politica: la distanza tra il discorso pubblico e il linguaggio reale rivela quanto il femminismo mediatico (o influattivismo che si riferisce all’uso di piattaforme digitali da parte di persone per diffondere messaggi di cambiamento sociale, sfruttando la propria influenza per sensibilizzare il pubblico, amplificare voci non egemoniche e stimolare azioni concrete) abbia sostituito l’etica con la performatività. Il linguaggio serve a esibire purezza, non a costruire relazioni.
In queste chat non si conversa, si amministrano reputazioni ed è grave. Ogni battuta è una sentenza, ogni sfogo un esercizio di autorità e quando l’autorità si esprime attraverso il linguaggio, non è più opinione: è potere.
La parola “privacy” viene spesso sventolata come uno scudo improvvisato, come la carta blocco turno di Uno, una specie di “salvagente morale” da afferrare quando la corrente del linguaggio trascina troppo lontano.
“Erano chat private”, “erano sfoghi tra amiche”, “non dovevano essere pubblicate” sono concetti che funzionano come sedativo collettivo, un modo per spostare la discussione dal merito al pudore, come se bastasse appellarsi all’intimità per rendere irrilevante ciò che si è detto. È il gesto più antico del potere quando viene messo a nudo ovvero travestire la responsabilità da dolore personale, chiedere protezione là dove servirebbe trasparenza.
Eppure, giuridicamente e culturalmente, una “chat privata” non è affatto un territorio inviolabile. I tribunali hanno stabilito che, quando una comunicazione avviene in uno spazio ampio o strutturato, perde la sua natura confidenziale e assume un peso pubblico. In pratica, non serve un microfono o una diretta streaming per diventare voce pubblica, può bastare un gruppo numeroso, una lingua che costruisce consenso, un tono che plasma opinione. È il linguaggio stesso a produrre l’effetto di pubblicità, indipendentemente dal mezzo in cui circola.
La privacy non è un lasciapassare per l’irresponsabilità.
Chi parla a centinaia di migliaia di persone ogni giorno non torna cittadino comune appena chiude l’app: resta un soggetto pubblico, anche nel silenzio apparente del suo telefono. Nei loro testi, Fonte e Vagnoli invocano una nuova etica del linguaggio, la necessità di usare le parole come strumento di cura, la condanna della crudeltà mediatica. Eppure, nel momento in cui quel linguaggio ritorna come boomerang, chiedono al pubblico di spegnere lo sguardo, di dimenticare la logica che loro stesse hanno imposto agli altri. Si rifugiano nella privacy come in una tenda da campeggio montata dentro uno stadio illuminato.
Il “tra amiche” non è allora un luogo di intimità, ma un artificio di potere. Non serve a proteggere la fragilità, ma a difendere l’autorità morale di chi l’ha esercitata per anni. È la scusa elegante di chi non vuole rispondere alle proprie stesse regole, il modo più raffinato per dire “questa volta non vale”. Ma quando la parola è diventata mestiere, ogni parola conta e contano anche quelle che si pensano dette in un angolo nascosto dell’internet.
Selvaggia Lucarelli e la testata Il Fatto Quotidiano non sono persone sprovvedute.
Non si improvvisano, non si svegliano una mattina e decidono di pubblicare estratti di chat di un’indagine penale per sport. Se l’hanno fatto, è perché (evidentemente) potevano farlo: perché la legge, la prassi giornalistica e la deontologia lo consentono, entro certi limiti che non stabilite voi ma i tribunali. E se un domani si scoprirà che non si poteva sarà un giudice a dirlo non chi pensa che dopo essersi ascoltati qualche puntata di Indagini abbia conseguito una laurea in procedura penale.
I media pubblicano materiali privati da sempre, ma non per morbosa curiosità, lo fanno per quattro ragioni precise e sono autenticità, trasparenza e funzione educativa. Rendere visibile ciò che accade nei centri del potere simbolico, dove la reputazione e il linguaggio producono conseguenze concrete.
La storia della cronaca italiana è piena di esempi in cui l’intimo è stato pubblicato non per umiliare, ma per capire, ad esempio:
Nel caso Cecchettin, le chat tra Giulia e Turetta sono servite a ricostruire la progressiva normalizzazione del controllo e della paura, non per esporla ma per comprendere la radice culturale della violenza, oppure nel Ruby-gate, le intercettazioni di Berlusconi hanno mostrato come un potere personale potesse piegare le istituzioni, oppure ancora nel delitto di Garlasco, telefonate e messaggi hanno ricostruito relazioni e contraddizioni nel racconto dei protagonisti e persino nello sport, in Calciopoli, le telefonate tra dirigenti e designatori hanno mostrato la manipolazione sistemica di un intero campionato e per citarne ancora un altro nel caso Cucchi, gli audio e le intercettazioni hanno fatto emergere omissioni e falsi, restituendo finalmente una verità processuale.
La regola è sempre la stessa, ed è brutale nella sua semplicità: si pubblica l’intimo quando l’intimo illumina un potere.
Quando ciò che accade nel chiuso di una stanza, di un telefono o nei gruppi WhatsApp racconta un meccanismo collettivo, smette di essere privato. Non è voyeurismo ma è servizio pubblico (che vi piaccia o meno). Le chat di cui stiamo parlando rientrano esattamente in questa logica perché non servono a infangare, ma a mostrare come nasce la violenza simbolica nei contesti che si definiscono progressisti, come il linguaggio dell’etica possa trasformarsi in strumento di dominio, e come la morale digitale sia capace di infliggere ferite invisibili, più durature di qualsiasi insulto.
In altre parole: non si è pubblicato “perché sì”. Si è pubblicato perché c’era qualcosa da vedere, e far finta di non guardare sarebbe stata la vera indecenza.
L’interesse pubblico non nasce dal gusto per il pettegolezzo, ma dalla necessità di capire come il potere si manifesta anche nei luoghi dove nessuno lo vuole vedere.
È pubblico ciò che produce effetti collettivi, anche quando si traveste da conversazione privata e nel caso di cui stiamo parlando, gli effetti sono evidenti: reputazioni modellate, gerarchie consolidate, linguaggi che diventano strumenti di legittimazione e di esclusione.
L’interesse pubblico qui ha tre funzioni, e tutte riguardano la cultura politica, non il voyeurismo. La prima è conoscitiva: capire come si costruisce il potere simbolico dentro la bolla “progressista” dove la violenza non si esprime più con la brutalità, ma con il linguaggio dell’ironia, della cancellazione e dell’ostracismo. La seconda è etica: mettere a nudo la doppia morale di un femminismo mediatico che predica accoglienza e gentilezza, ma si fonda su dinamiche di esclusione e disciplinamento. La terza è preventiva: mostrare a chi osserva da fuori come agisce la violenza simbolica anche dentro i movimenti che dicono di combatterla, per riconoscerla quando si ripete, e non scambiarla per militanza.
Le chat non sono gossip, ma documenti politici. Raccontano la costruzione del consenso nell’industria dell’attivismo, dove la legittimità non si misura in idee ma in appartenenze, dove la coerenza è sostituita dalla visibilità e il linguaggio serve più a mantenere posizioni che a produrre pensiero. Leggerle significa studiare un meccanismo di potere, non spiare una lite.
E questa, che piaccia o meno, è una questione pubblica.
Il femminismo contemporaneo, almeno nella sua versione più visibile e algoritmica, ha smesso da tempo di essere un movimento politico: è diventato un regime morale.
L’etica, da linguaggio collettivo, si è trasformata in marchio identitario capitalista e la virtù è diventata un prodotto da esibire. Non si lotta più per cambiare il mondo, ma per essere percepite come persone giuste, educate, eticamente presentabili.
Il problema è che quando la moralità diventa performance, la politica scompare e si passa dalla lotta alla messa in scena, dall’organizzazione alla reputazione. Il risultato è un femminismo che non emancipa, ma controlla, non libera i corpi ma li valuta, non ascolta ma punisce. È un meccanismo di selezione morale, una catena di montaggio della purezza.
Il “tra amici” non esiste quando chi parla ha un pubblico da centinaia di migliaia di persone, un seguito, un mercato, un potere simbolico che si muove come un’onda.
A quel punto ogni parola diventa politica, ogni risata privata una presa di posizione. perché nelle chat riportate dalla stampa nazionale non sono una caduta personale, ma la fine dell’alibi morale, l’idea che basti dichiararsi “dalla parte giusta” per non essere mai davvero colpevoli.
E qui va detto, con la freddezza che il dibattito non riesce a mantenere, che parte del problema è anche chi ha raccontato la storia. Selvaggia Lucarelli e Il Fatto Quotidiano non sono esattamente entità neutre perché generano scontro per natura, ogni loro intervento divide, infastidisce, polarizza. Lucarelli è un detonatore umano (nel bene e nel male) ed io penso che se la stessa notizia fosse uscita su Domani, La Stampa o un piccolo sito femminista, la reazione sarebbe stata probabilmente più razionale, meno isterica, forse anche più disposta ad analizzare il contenuto invece del mittente. Ma l’ha detto Lei, e questo basta a far deragliare la discussione dal merito alla biografia, dal problema collettivo alla simpatia personale. È il sintomo di un Paese che discute di chi parla più che di che cosa dice, e che così si condanna a non capire mai nulla fino in fondo.
Ma al di là dei nomi, resta un fatto: la pubblicazione di quelle chat non è un atto di violenza, perché rende visibile ciò che il potere preferisce nascondere dietro la retorica dell’empatia. Il privato è politico soprattutto quando il potere si esercita nel privato, tra battute, emoji e messaggi che decidono chi merita credibilità e chi può essere demolito senza conseguenze.
Questa storia chiude una zona d’ombra che durava da anni: l’idea che l’attivismo social potesse giudicare tutto senza essere mai giudicato. Non è un incidente, è un epilogo. Non sono semplici chat tra amici (e smettetela di dirlo sennò vi picchio tutti SCHERZO) sono il momento in cui la morale pubblica è costretta a guardarsi allo specchio e a scoprire che dietro il riflesso del bene, a volte, c’è solo il volto del potere capitalista.




Bellissimo pezzo, complimenti sul serio. Molto centrata soprattutto la parte in cui sottolinei come venga a morire l’idea che basti dichiararsi “dalla parte giusta” per non essere mai davvero colpevoli. Un’unica nota a margine: in realtà la pubblicazione di atti d’indagine sarebbe proibita, ma si tratta di un malcostume italiano molto radicato per cui non paga mai nessuno (sanno tutti che li fanno trapelare cancellieri compiacenti), ed è accaduto in tutti i casi che menzioni tu stessa, il più calzante dei quali riguarda proprio le intercettazioni di Berlusconi: solo che in quel caso ci abbiamo riso tutti, mentre quando capita alle nostre beniamine scattano i distinguo. In questo caso la loro pubblicazione, anche se dovuta ai soliti motivi personali di Selvaggia Lucarelli, è fondamentale per smascherare il doppiopesismo violento e tossico di persone che si sono arrogate il diritto di insegnarci la morale. Brava, sul serio.
Bellissimo pezzo. Ho smesso di seguire quasi un anno fa Carlotta Vagnoli, Flavia Carlini e Valeria Fonte perché qualcosa nel loro linguaggio mi stonava. Poi l’altro giorno ho letto la notizia e non ho smesso di pensarci. Grazie per aver scritto quello che io, a parole, non riesco a esprimere.