“Backstage” è la mia nuova rubrica. Uno spazio volutamente anti-performativo: più intimo, più lento, più vero. Racconterò la mia vita e il tentativo di far diventare la scrittura la mia unica entrata, senza capi né editori. Dentro ci troverete pensieri scritti di getto sulle notizie del giorno, libri che mi passano per le mani, musica che mi tiene in piedi. È come se aprissi la mia Moleskine, o le note del telefono. Dal 1 Gennaio diventa a pagamento. Esce ogni giorno.
Quello che ho scritto ieri mi ha fatto bene e male insieme. Bene, perché ho dato voce a una parte di me che non è propriamente segreta - non ho mai avuto problemi a parlare della mia salute mentale - ma che negli ultimi tempi ho preferito tenere per me, sono successe cose di cui non è ancora il momento di parlare. Chi mi è rimasto vicino conosce la mia situazione: non è mai stata un tabù, né un motivo di vergogna ma espormi, oggi, mi fa paura. Perché lo stigma, in questa società, esiste ancora. Eccome se esiste.
La verità è che la vita di chi ha una diagnosi psichiatrica non è un reel di un TED Talk, là fuori la gente continua a giudicarti, a isolarti, a sussurrare dietro le spalle se la tua diagnosi non è quella giusta, quella “cool”, quella che il web ha deciso di romanticizzare. La salute mentale non è un trend, è una fatica. La psicoterapia non costa solo 80 o 90 euro a seduta ma anzi costa tantissimo in termini di energia, di coraggio, di dolore. Significa mettersi a nudo, guardarsi davvero, lavorare su di sé anche quando si vorrebbe solo sparire. Non c’è niente di glamour in tutto questo. Non c’è musica di sottofondo, non c’è voce calma che ti dice “va tutto bene, siamo tutti speciali e unici”. C’è solo la realtà e la realtà, quella vera, non piace quasi a nessuno.
Invece mi fa male non tanto per la paura di essere giudicata ma essere costretta a guardare in faccia una consapevolezza: la mia emozione dominante è la vergogna. E quella vergogna si nutre del timore di non avere il controllo sulla narrazione del mio privato, di vedere ancora una volta la mia storia usata contro di me. Non sono cresciuta sentendomi sbagliata: mi ci hanno fatta sentire. Non per caso, ma perché me lo ripetevano o peggio, perché chi mi invitava ad accogliermi “così come sono” finiva poi per non saper reggere davvero le mie difficoltà, facendomene pesare ogni frammento.
Quindi sì, ho paura. Tanta. Da quando ho pubblicato il lavoro sulla Scuola Holden ho ricevuto amore, comprensione, stima. Non temo di perderli anche perché non li cercavo, io volevo solo liberarmi di un peso enorme, che portavo addosso da sette anni. La mia paura vera è un’altra: quella delle persone che restano in silenzio ad aspettare il mio prossimo passo falso.
Quello che mi ha fatto più male in tutta la vicenda della Scuola Holden – e già da quando la frequentavo – è stata la scoperta che avevo frainteso chi fossero davvero “i buoni”.
Io credevo che loro lo fossero, perché i cattivi si sa, sono i fascisti e poi ci sono entrata dentro e ho capito che leggere gli stessi libri, scriverli o fare arte non ti rende automaticamente una persona migliore. Ho scoperto che molte delle persone che avevo ammirato e che con il loro lavoro mi avevano arricchita, in realtà erano semplicemente deludenti. E questo mi ha fatto male perché io mi considero il risultato dei libri che ho letto, dei film che ho visto, della musica che ho amato e ho sempre pensato che questo mi collocasse “dalla parte giusta del mondo”. Quando però ti accorgi che chi quei libri li scrive e chi quell’arte la produce, non lo è affatto, ti si apre una crepa. Non è solo la fiducia nelle persone a vacillare ma è la fiducia stessa in ciò che ti ha formato. Ti chiedi se tutto ciò in cui hai creduto, tutto quello che ti ha costruito, sia davvero ancora valido.
È successo anche con il femminismo. Non adesso, in mezzo agli scandali e ai call-out di questi giorni, ma anni fa, nel mio privato. C’è stato un periodo in cui, a causa di un trauma profondo, mi ritrovavo ogni giorno a piangere chiedendomi: “Se io non sono una femminista, allora chi sono?”. Ricordo di averne parlato con Lorenzo Gasparrini. Gli raccontai quello che mi era accaduto, confusa, ferita, e a un certo punto gli chiesi: “Ma com’è possibile? Io e queste persone abbiamo letto gli stessi libri, ascoltiamo la stessa musica, crediamo negli stessi diritti. Com’è possibile che sia successo tutto questo?”.
Mi rispose con la frase più onesta e più dolorosa che potessi sentire: “Giulia, la gente legge un sacco di cose senza capirci un cazzo.”
Ora è passato del tempo e sto cercando di riemergere da questo tremendo bagno di realtà ma l’acqua sta ancora lì e sento che la paura di affondare esiste. Sto ancora imparando a tenermi a galla, nemmeno mi sogno di imparare a nuotare.
Nel frattempo mi è capitato di leggere questo post che, lo ammetto, mi ha fatto sentire una cattiva femminista. Negli ultimi tre anni, l’ansia sociale è diventata così forte che a volte mi era impossibile anche solo prendere un caffè con il mio migliore amico, figuriamoci partecipare a una manifestazione con centinaia di persone. Io non credo che le lotte si facciano solo in piazza ma anzi credo che si possano fare anche online - e se il femminismo hacker e cyborg esiste, ci sarà un motivo. Nel femminismo, per me, c’è spazio per tuttə: chi scende in piazza e chi, per motivi diversi, non può farlo e sceglie di agire nello spazio digitale. Ogni ruolo è politico ed essenziale al movimento, solo che si manifesta in modi diversi. Capisco perfettamente il punto dell’autrice dell’articolo (che, lo dico senza spocchia, non conosco). Il femminismo ha bisogno anche della cura dei luoghi in cui viviamo, dei quartieri, delle relazioni quotidiane e non può esistere (e non deve) solo sui social, né soltanto nei libri. Ma allo stesso tempo mi chiedo: il fatto che io, oggi, non riesca a stare in mezzo a tanta gente mi rende davvero una cattiva femminista?
Perché la verità è che anche chi non riesce a gridare in piazza può continuare a lottare. Può scrivere, raccontare, costruire spazi di pensiero, di confronto, di solidarietà. Il femminismo è una pratica collettiva, certo, ma anche un modo di abitare il mondo e non dovrebbe far sentire esclusi chi, per ragioni di salute o di fragilità, non può esserci fisicamente.
L’analisi di questo post che ho trovato (qui il long-form) è in gran parte corretta: il problema non sono le chat in sé ma l’aver trasformato l’attivismo in una performance, la politica in storytelling, il femminismo in un brand da monetizzare. Però l’articolo secondo me cade nello stesso errore che denuncia: parla “da fuori”, come se questo sistema non lo avessimo costruito tutti noi - giornali, festival, editori, pubblico compreso. Il risultato è che sembra un moralismo travestito da lucidità, perché sì, le influattiviste sono il sintomo, ma la malattia è collettiva perché un’intera scena che si è convinta che bastasse avere le parole giuste per essere dalla parte giusta.
Questo invece è un argomento che vorrei approfondire meglio e che mi è capitato di vedere su Tik Tok, se avete fonti autorevoli mandatemele in direct.
Nel frattempo ho iniziato questa notte a leggermi l’ultimo libro di
La conquista dell’infelicità. Come siamo diventati classe disagiata (link Amazon) e vi metto una delle pagine iniziali del libro che mi ha proprio tolto anche il sonno fisico di questa notte - giuro non è spoiler è proprio agli inizi.La mia psicoterapeuta non ti ringrazia Rav, stavamo facendo così tanti progressi e ora mi tocca dirle “Senti ho letto questo libro e ora ti citerò dei concetti che dice che ricalcano proprio ciò che mi fa soffrire…”.
That’s all folks e anche oggi canzoncina da SoundCloud
“Backstage” è la mia nuova rubrica. Uno spazio volutamente anti-performativo: più intimo, più lento, più vero. Racconterò la mia vita e il tentativo di far diventare la scrittura la mia unica entrata, senza capi né editori. Dentro ci troverete pensieri scritti di getto sulle notizie del giorno, libri che mi passano per le mani, musica che mi tiene in piedi. È come se aprissi la mia Moleskine, o le note del telefono. Dal 1 Gennaio diventa a pagamento. Esce ogni giorno.





Ciao, capisco la tua frustrazione e senso di impotenza di fronte all’incapacità di vedere la coerenza in ciò che viene professato. Il femminismo è una pratica complessa che si sta costruendo come narrazione giorno dopo giorno.
Il problema non è il movimento, ma chi lo utilizza verbalmente per scopi personali.
Non c’è un modo giusto di essere femminista. L’importante è esserlo e basta.
Poi le cagate le facciamo tuttə.
Mi son ritrovata tantissimo nelle tue parole ("non sono cresciuta sentendomi sbagliata: mi ci hanno fatta sentire").
Quando ho iniziato a leggere autrici femministe, a frequentare ambienti che parlavano di violenza di genere ma ANCHE a seguire influattiviste sui social, mi son sentita meno sola e soprattutto meno sbagliata.
E, attenzione, ci stiamo dimenticando di una parte importante: seguire delle persone che parlano e si mostrano su una piattaforma digitale e quindi appoggiare i loro discorsi e ritrovarsi nelle loro parole (con, a seguito, tutti quei termini cari al social media marketing tipo "generando interazioni e incrementando l'engagement") vuole dire star consumando e quindi star "comprando" il loro prodotto (o il loro brand, se vogliamo sempre metterla in termini di marketing).
E' implicito, sempre, il consumo quando si tratta di contenuti digitali. E, come tu scrivi, siamo noi ad averlo "fomentato" e costruito assieme. E non penso che sia sbagliato, anzi. Sarebbe da bigotte dire: eh, ma l'attivismo si fa solo in piazza. Lo schermo è una delle nuove piazze e lo schermo è uno dei nuovi generi "testuali" che informano persone che, per mancanze di tempo o mancanza di risorse, non possono fare altrimenti.
Io penso che qui ci sia un problema importante con la polarizzazione morale (lo scrivo perché succede spesso anche a me): non sappiamo se quello che diciamo o pensiamo sia giusto o sbagliato, non sappiamo se stiamo facendo bene o male, non sappiamo se siamo degne dell'etichetta oppure no. Ma perché? Forse perché la nostra generazione di donne (parlo della mia, sono del 91) ha scoperto tardi che la maggior parte delle esperienze traumatiche che abbiamo avuto dipendevano da una struttura egemonica volta a trattarci come "sì, ma avete dei diritti chiaramente, ma comunque siete sbagliate" (quindi, "questo non è stupro, questo non è sessismo, questo è uno scherzo").
Una volta capito che c'erano altre donne che, come noi, avevano subito le stesse cose e che non si sentivano più tanto impotenti, ci siamo gettate immediatamente dentro al gruppo. Perché? Perché, la maggior parte delle volte, il femminismo sana.
Ma cosa succede, appunto, quando diventa un prodotto brandizzato che ti da delle direttive certe di cosa devi e non devi fare? Ti senti di nuovo sola. Ti senti di nuovo sbagliata.
Non so dove sto andando a parare, potrei continuare a scrivere per ore (e ripeto, è solo un pensiero, una riflessione).
Comunque sia, grazie mille per questo pezzo. Mi è piaciuto tantissimo.