Ciao a tuttə,
questa sarà la nuova sezione - e sì, a un certo punto diventerà a pagamento.
Vorrei essere trasparente: il mio obiettivo è vivere unicamente di scrittura. Non di bandi, chiamate, o “collaborazioni” che scadono prima ancora di iniziare ma di parole che costruiscono un percorso, giorno dopo giorno. Il mio, alle mie regole, ai miei ritmi, alle mie condizioni.
Scrivere per me non è un hobby ma anzi, oltre essere stato (ed è) il mio percorso di studi da quando ho vent’anni è la sola forma in cui riesco a tenere insieme le cose: quello che penso, quello che vedo, quello che non capisco. Qui proverò a raccontarlo senza filtri, con la calma che fuori non c’è più.
Credo che essere retribuiti in modo equo non sia una questione di denaro, ma di dignità.
Non significa pretendere più degli altri, ma semplicemente non dover giustificare il proprio lavoro come se fosse un favore. Chi scrive, crea, racconta o documenta mette in gioco tempo, competenze e una parte intima di sé che spesso non ha prezzo, ma ha valore e quel valore andrebbe riconosciuto, non elemosinato.
Non voglio guadagnare sulle spalle di nessuno, né trasformare questo spazio in un mercato. Voglio solo che chi sceglie di leggerlo sappia che dietro ogni parola c’è lavoro vero, e che sostenere questo lavoro significa permettergli di continuare a esistere. Mettersi in proprio, in questa industria culturale, non è una scelta eroica ma è una forma di sopravvivenza, di resistenza. Significa smettere di chiedere permesso a chi decide chi può parlare e chi no, significa uscire da un sistema che ti vuole sempre riconoscente, precario e disponibile.
Lavorare in proprio vuol dire assumersi la responsabilità di ciò che si fa, ma anche riconoscersi il diritto di farlo. È un modo per non delegare la propria voce a redazioni, agenzie o editori che spesso confondono la parola opportunità con sfruttamento. È rischioso, certo, ma è anche l’unico modo per restare liberi, per costruire qualcosa che non dipenda dall’umore di un direttore o dall’algoritmo di un social. Almeno ci sto provando.
E poi c’è l’altra dipendenza, quella più invisibile ma non meno violenta: l’algoritmo.
Nel mondo dei social mainstream non serve più censurare, basta spegnere la visibilità. Non ti dicono “non puoi parlare”, semplicemente non ti “ascolta nessuno”, è una forma di controllo perfetta, perché non sembra tale perché ti lascia libero di postare, ma decide chi ti vedrà. E quando scopri che certi argomenti - come la Palestina, i diritti umani, la salute mentale, la precarietà - riducono la portata dei tuoi contenuti, ti ritrovi a fare autocensura senza nemmeno accorgertene.
È un addestramento implicito: più sei innocuo, più vieni premiato e così finisci per modulare anche il tono, per scegliere parole più neutre, per chiederti se vale la pena parlare di ciò che conta. Il problema è che da quella visibilità dipende la sopravvivenza stessa del lavoro perché meno persone vedono, meno il tuo lavoro esiste, meno viene riconosciuto, meno viene pagato. È una catena sottile ma ferrea, dove l’ingiustizia economica e quella algoritmica si intrecciano.
Voglio uno spazio dove le parole non debbano passare per il giudizio in primis di una di una macchina, dove i temi scomodi non siano penalizzati, dove il valore di un testo non dipenda da quante persone lo “vedono”, ma da chi lo legge davvero.
Backstage sarà una newsletter serale, una specie di buonanotte condivisa.
Dentro ci sarà il caos organizzato delle mie giornate: il tentativo di capire come si sopravvive da lavoratrice autonoma in questo ecosistema strano e mutevole dove editoria e digitale si confondono.
Scriverò di ciò che mi succede, di quello che sto imparando, di cosa significa provare a costruirsi un mestiere partendo da sé e racconterò un po’ anche di me, ma senza spettacolarizzare la mia esperienza di persona queer e la convivenza con una diagnosi psichiatrica. Ovviamente, ci saranno libri, film, podcast, canzoni, ossessioni del momento, sarà un luogo disordinato ma onesto, dove entra solo ciò che non trova spazio altrove.
Scrollo, ergo dubito invece resterà pubblico e gratuito.
Voglio che chiunque possa leggere gli approfondimenti e le analisi che continuo a scrivere. Backstage sarà semplicemente il dietro le quinte: più intimo, più fragile, non necessariamente più vero ma meno abbottonato.
Per i prossimi due mesi Backstage sarà gratuito.
Non è una strategia, è una questione burocratica, perché per poter attivare gli abbonamenti a pagamento devo aprire una partita IVA specifica, e la aprirò a Gennaio, all’inizio del nuovo anno. Si può aprire in qualsiasi momento, ma farlo a Gennaio è più sensato: l’anno fiscale in Italia coincide con quello solare, quindi se la aprissi ora “brucerei” due mesi di agevolazioni e dovrei fare contabilità separata per un periodo minuscolo. Così invece parto pulita, con un anno intero davanti e la possibilità di impostare tutto in modo trasparente e regolare.
In questi due mesi voglio solo costruire il ritmo, capire se questo spazio funziona e se vi va di restare. Poi, da gennaio, Backstage diventerà un lavoro vero anche dal punto di vista fiscale: sostenibile, legale, e spero, duraturo.
Non metto in dubbio che potrei fare qualsiasi altro lavoro, anche quelli che la società considera “più umili” (definizione che mi disgusta, perché non esistono lavoratori di serie A o di serie B), il punto è un altro: ho studiato, mi sono formata, ho costruito un percorso di vita che mi porta qui, a voler fare questo.
Nel mondo che immagino, ognuno dovrebbe poter scegliere il proprio lavoro e la propria vita ma non quella che “merita”, perché il merito è un’illusione che regge solo dove la democrazia è già un privilegio, ma quella che desidera, senza calpestare nessuno per ottenerla.
Io ci sto provando. E se non funzionerà, almeno potrò dire di averci messo tutta me stessa, senza compromessi.
Inizia lunedì.
P.S.
Si, ci sarà anche un podcast settimanale. Invece di parlarvi di che cos’è, ve lo farò ascoltare senza tanti fronzoli.

